martedì 27 ottobre 2015
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Cent’anni di vita, di cui oltre 70 da sacerdote. Don Mario Cazzaniga, il prete che compare tra i protagonisti del Cavallo Rosso di Eugenio Corti, accetta con piacere i festeggiamenti che tanti gli dedicano in questi giorni, ma è fiero soprattutto della pergamena con gli auguri che gli ha inviato papa Francesco. «Due sono le linee di sviluppo del mio sacerdozio – inizia don Mario, da pochi mesi ospite presso la residenza San Pietro di Monza –: da un lato la dedizione ai malati, a costo eventualmente della vita; dall’altro il compito di portare Gesù in tutto il mondo. E in questo sentivo il sostegno del cardinale Martini (ma anche del cardinale Giovanni Colombo ero stato il beniamino)». In effetti don Mario ha viaggiato dall’Australia all’Africa, dall’Isola di Pasqua alla Cina, dalle Hawaii (visitando il lebbrosario di Molokai) al Circolo polare artico canadese: «Là riuscii a celebrare la messa in una stazione di ricerca isolata, spremendo gli acini di un unico grappolo d’uva che si trovò in una dispensa». Nato il 16 ottobre 1915, Mario Cazzaniga divenne sacerdote nel 1944 («Fui salvato dalla guerra dal cardinale Schuster») ed ebbe l’incarico di coadiutore alla parrocchia di Besana in Brianza (Monza). La sua figura di giovane prete, quale emerge dalle pagine del Cavallo Rosso («capelli a spazzola, faccia da bambino con occhiali cerchiati di ferro sottile», scrive Corti e – a parte la canizie – non è molto cambiato) segna profondamente la vita dei giovani e delle famiglie: don Mario cerca di educare la gioventù e di aiutare tutti, nelle difficili prove della guerra prima e della guerra civile poi, con un criterio guida: la misericordia inesauribile di Dio. Don Mario conosce presto la famiglia Corti, verso cui sviluppa grande stima, in particolare per la mamma Irma: «Sperava che di dieci figli almeno uno diventasse sacerdote, e aveva già fatto preparare una talare in gabardine per l’ultimo». Così quando anche Corrado, intrapresi gli studi di medicina, sembrava ormai votato a un’altra missione «la signora me ne fece dono. Ma il Signore ha le sue vie: i genitori regalarono al figlio un viaggio a Lourdes accompagnato da me, per premiarlo dei suoi risultati universitari. E lì, dopo una notte trascorsa in preghiera nella grotta, abbracciandomi mi disse che voleva diventare gesuita». Don Mario è il suggeritore nascosto di molti episodi narrati da Eugenio Corti (che nel dedicargli il volume della prima edizione lo definisce «personaggio tra i più belli di questo libro »): «Abbiamo passato tante ore insieme. Gli raccontavo tanti particolari della vita qui, mentre lui era al fronte in Russia». Traccia importante della propensione di don Mario al perdono, nel romanzo, è l’episodio della conversione del Foresto, il comunista mandato in paese a fare proselitismo, colpito da una leucemia mortale. «Il fatto è storico – conferma don Mario –. Era un uomo gigantesco, sempre armato perché diceva di andare a caccia, ed era temuto da tutti. Ma quando fu ricoverato, trascorsi ore e ore con lui: prima a parlare di Tolstoj e Dostojevski, poi piano piano di temi religiosi. E alla fine, ammettendo di averne fatte di tutti i colori, chiese di essere confessato e comunicato. Gli feci un gran funerale in chiesa, con i suoi amici frementi di rabbia». Il tempo di guerra è stato epoca di grandi odi e di altrettanto grandi opportunità di conversione: «Predicavo che bisogna sempre rispettare i morti: quante estreme unzioni ho ammini-strato! E quante confessioni di giovani combattenti in punto di morte (c’è stato chi nel delirio mi credeva un nemico e voleva strozzarmi)! Fui chiamato quando ci fu la strage di Bulciago, dove i partigiani incapparono in una colonna di fascisti in fuga verso Como. Così come dovetti riferire alla moglie di un fascista che suo marito era stato fucilato: nonostante le mie precauzioni, svenne. Ma da allora cominciò a frequentare la chiesa». E ha corso anche rischi personali: «I comunisti mi malmenarono fuori dalla chiesa (ma non li denunciai) e i nazisti mi puntarono la pistola alla tempia perché – dopo aver preso in ostaggio alcuni operai – volevano che rivelassi chi aveva compiuto un furto di sale in stazione: ma io ero sacerdote, dovevo solo mettere pace. Ci sono momenti in cui si fanno cose eroiche che non si era mai pensato di poter fare... Ero coraggioso, adesso sono un pulcino». Dopo il ministero a Besana («dove ho lasciato la pelle»), don Mario viene destinato quale cappellano all’ospedale San Gerardo di Monza: «Lì avevo a che fare con gli infettivi, ma non mostravo paura (come accade anche nel Cavallo Rosso, quando visita i ricoverati con la tisi, ndr). E anche il cardinale Giovanni Battista Montini, in visita al reparto, fece a meno del disinfettante». Nel luogo di sofferenza per antonomasia, don Mario è punto di riferimento: «Gianna Beretta Molla chiese subito di me quando venne ricoverata, incinta e malata di tumore. Ero presente quando disse: 'Nel dilemma di scegliere chi deve vivere, sono pronta a dare la mia vita per la mia creatura'. E, da medico, sapeva bene che cosa la attendesse». Don Mario è anche il suggello del Cavallo Rosso: l’ultima pagina del romanzo rivela che grazie alle sue preghiere ha raggiunto il paradiso uno dei personaggi più odiosi, un funzionario dedito alla caccia, alla tortura e all’uccisione dei partigiani prima, dei fascisti poi, ma che – scrive Corti – «grazie alle preghiere instancabili di don Mario, il demonio non è riuscito a tenere soggiogato sino alla fine». Alla vigilia del Giubileo della misericordia, don Mario è ancora un punto di riferimento: «Ero venuto qui per riposare – scherza –, ma il Papa mi chiede di andare avanti». E legge, sulla pergamena incorniciata alla parete di fianco al letto, che per don Mario «Papa Francesco… invoca l’intercessione di Maria affinché il suo ministero continui a essere icona e trasparenza di quello di Cristo Buon Pastore».
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