domenica 23 agosto 2009
Dal successo come cantante a quello di discografica e talent scout: lanciò Elisa, Bocelli e Negramaro. «Gli artisti non vanno lasciati soli, unisco industria e arte» «Non ho più cantato per dedicarmi alla famiglia e sono felice Nostalgia? Solo vedendo le artiste per l’Abruzzo a San Siro»
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Sanremo 1966, Nessuno mi può giu­dicare, interprete Caterina Caselli, se­condo posto. Sanremo 2001, vince Luce di Elisa, discografica («artigiana, non industriale») Caterina Caselli Su­gar. Differenza? Non nel piazzamen­to, assicura la Signora. E nemmeno nel successo che la gente attribuì a entrambi i brani, aggiungiamo noi. «La differenza non c’è», specifica Ca­terina Caselli con un sorriso. «Canta­re mi entusiasmava e mi entusiasma allo stesso modo veder cantare arti­sti che stimo. È bello aiutarli. È bello essere qualcosa per qualcuno». Vi ca­pitasse mai di entrare nel regno at­tuale dell’ex-Casco d’oro, sappiate che non vi troverete pareti. Non per­ché non vi siano. Perché non si vedo­no, sommerse dai dischi d’oro e pla­tino ottenuti dalle scommesse vinte della Caselli che «aiuta»: i dischi di Bocelli, Avion Travel, Negramaro e – per l’appunto – Elisa. Milioni di al­bum venduti nel mondo (60 solo Bo­celli), cui la Signora può aggiungere, ovvio, quelli venduti in prima perso­na. «Nessuno mi può giudicare», per dire, è stata in vetta alle hit tre mesi. Questa è la storia di un’artista di suc­sco cesso che per scelta si è messa a co­struire successi altrui. Fino a com­battere battaglie culturali: per il pro­prio 'artigianato', certo, ma non so­lo. Meglio, però, andare con ordine. Riavvolgiamo il nastro: perché lasciò le scene? «La famiglia, si sa. Mi sposai, ebbi un figlio. Però c’era anche qualcosa nel mondo della musica che non mi pia­ceva: non si programmava nulla, non c’era tempo per migliorarsi. E questo mi pesava moltissimo, come mi pe­savano fisicamente le tournée senza sosta». Il passaggio da artista a industriale ha significato per lei cambiare la pas­sione con un po’ di cinismo? «No, agisco prima dell’industria. In­contro l’artista, partecipo al suo pro­getto, cerco di capirlo oltre paure e ti­midezze… E tut­to iniziò in fondo nel 1967». Ovvero? Raccon­ti pure. «Conducevo con Giorgio Gaber Diamoci del tu in Rai. Per l’ultima puntata dissi a Giorgio 'Cono- uno bravo, perché non farlo esi­bire con uno scelto da te?' Io portai Guccini, lui Battiato. Proposi Gucci­ni pure ai miei discografici: ma ave­va la erre moscia… Però già a quei tempi intercettavo cose nuove, vole­vo che per gli altri si facesse quanto avrei voluto si facesse per me. Poi, è diventato il mio mestiere». In cui non incide proprio mai il co­siddetto mercato? «Non tradisco mai gli artisti o la loro arte. Semmai la declino nella realtà, trovando soluzioni pratiche ai limiti che essa impone, ma questo è nor­male». Come sono gli aspiranti cantanti di oggi? «Io facevo chilometri per le lezioni di canto e un provino era un miraggio. Oggi ci si fa conoscere in fretta, però c’è più competizione e non si può più investire attendendo risultati nel tem­po. Direi che sono spesso più prepa­rati ma che spesso manca loro un qualcosa in più: affidabilità, tenacia, umiltà…» Se dice che non si può più investire nel tempo, lo vede che allora il mer­cato condiziona anche lei? «Oggi scontiamo i limiti di un mer­cato digitale che non remunera. Per­ché un disco non costa solo per la di­stribuzione. Costano contratti, mu­sicisti, studi, produttori, missaggio… Non è che mettere un brano sul web e non su cd significhi risparmiare tan­tissimo ». Lei che soluzione propone? «Si deve rivalutare il lavoro degli au­tori, va riconosciuto a prescindere dall’opera fatta. È pure una questio­ne culturale: se Bocelli vende nel mondo, tramite lui si conoscono l’I­talia, la nostra lingua…». Perciò lei si batte per il copyright co­me diritto. «È l’unica. Per dire anche ai giovani che, se mai vorranno vivere di musi­ca pure loro, senza questo diritto – che oggi violano – non potranno far­lo ». Scusi, ma è una battaglia condivisa o solitaria? «Deve diventare collettiva. Come pos­siamo pensare di fare ancora della musica, o dell’arte, un lavoro se non ne salvaguardiamo e rispettiamo l’es­senza?» E lei è ottimista sul futuro del fare musica? «Guardi, il dato è chiaro: se anni fa la Sugar poteva fare dodici progetti l’an­no, oggi ne può fare uno. Ma queste battaglie di cui le ho parlato nascono dalla certezza che si può uscirne: per un circolo virtuoso di guadagni giu­sti e possibilità di reinvestire». Ma lei, Signora Caselli, non rim­piange proprio mai i tempi in cui an­ziché di questi problemi si occupava di scegliere canzoni e farsi applau­dire? «Beh, ogni tanto… Ad Amiche per l’A­bruzzo a San Siro, vedendo i duetti fra le artiste, ho sentito mancarmi il gu­sto di giocare con la musica. Non ho rimpianti, però l’ho pensato, guar­dando Laura Pausini e le altre, che lì avrei potuto esserci anch’io».
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