domenica 22 maggio 2022
Il teologo, già presidente di CL, e lo psicanalista e filosofo discutono attorno alla presenza di Dio, insidiata dalla Tecnica, nella società occidentale e nella loro vita
Carrón e Galimberti in dialogo sul «credere» nella contemporaneità

Akira Hojo / Unsplash

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C’era una volta, in ere remote, il tempo. Era un tempo ciclico, che si ripeteva inesorabile di stagione in stagione, nei millenni. Nascita, crescita, declino, morte - di ogni cosa viva. Per Israele, con la chiamata di Abramo, la novità è straordinaria: Dio gli promette una discendenza infinita, Dio annuncia un futuro buono. Nella tradizione cristiana è addirittura il figlio di Dio che porta questo annuncio. E l’Occidente di questa speranza si impregna: nell’arte, nella letteratura, nella carità, perfino nel pensiero di chi del cristianesimo è avversario. Anche per Marx il passato è ingiustizia, ma il futuro è equità sociale, per Freud il passato è trauma, ma il futuro è guarigione, osserva Umberto Galimberti: «Tutto è cristiano in Occidente. Ma oggi – si chiede – se tolgo la parola Dio dal mondo contemporaneo capisco ancora la realtà?». È il punto centrale di Credere (Piemme, pagine 112, euro 16,90),, breve ma intenso dialogo fra lo psicoanalista e Julián Carrón, già presidente di Comunione e liberazione, docente di Teologia all’Università Cattolica di Milano.

Credere, o no. La questione viene affrontata dallo psicoanalista e da Carrón con capacità di ascolto e senza alcuna animosità. Ciò non significa che le risposte dei due, alla fine, non divergano come binari inesorabilmente diretti in opposte direzioni. Carrón: «Io credo perché ho riconosciuto Dio nella mia esperienza e da quel momento la vita è fiorita». Galimberti: «Io non sono né laico né ateo, io sono “greco”: significa sapere che devi morire e quindi acquisire il senso del limite».

A livello culturale e collettivo, la differenza fra credere o no è spinosa. Ha assolutamente ragione lo psicoanalista quando dice che se il futuro non è più una promessa, se lo scopo manca, allora compare l’angoscia. La vediamo bene questa angoscia, sono 400 suicidi giovanili all’anno in Italia e tanti altri, anche di anziani, di uomini e donne sole; sono la diffusione degli stupefacenti, e di violenze gratuite e insensate, come per gioco. Il nostro mondo è intriso di nichilismo. I ragazzini delle medie spesso l’hanno già addosso. Anche i pazienti di Galimberti, ex ragazzi del ’68, gli chiedono che ne è stato, degli ideali della loro giovinezza. Domanda inevitabile, quando pensi ai cortei di Milano anni ’70 e poi al veglione di Capodanno del 2022, con bande di adolescenti ubriachi che cercavano di violentare le coetanee: che tristezza. Quelli degli anni ’70, almeno, parevano credere in qualcosa.

Non più l’uomo, ma la Tecnica secondo lo psicoanalista è il nuovo soggetto della Storia. La Tecnica non ha bisogno dell’uomo. L’algoritmo analizza i comportamenti, «li organizza in big data e poi dice a cosa servo io, non chi sono. Capite il deserto che si viene a creare?», chiede. Lo capiamo benissimo, lo viviamo ogni giorno. Scoppiano qui e là dalle cronache storie di padri impazziti che massacrano i figli, di disabili soli trovati morti in casa dopo mesi, di quindicenni che hanno tutto, ma vogliono morire.

In tanti studiosi hanno parlato di “stanchezza dell’Occidente”, ma più che stanchezza pare di scorgere i segni di una vecchiaia che corrompe, di un decadimento inarrestabile. Come se con lo svuotarsi della fede cristiana non reggessero, contrariamente a quanto credevano gli Illuministi, i valori da essa portati. Ciò che non cede, invece, secondo Carrón, è la irriducibilità del nostro Io. Quella nostra radicale, ostinata ansia di felicità: «Dentro tutti i condizionamenti cui siamo innegabilmente sottoposti permane una libertà che nessuno può toglierci. Il punto è trovare uno sguardo, un incontro, un luogo che ce la faccia riconoscere, che la ridesti», dice Carrón. Il punto è un professore che guardi con altri occhi l’alunno dell’ultimo banco, il più scadente, è l’infermiere che riconosce sua madre in una vecchia morente, è il vicino che bussa alla porta che non si apre mai.

È l’uomo che crede in Cristo che innerva il mondo di una vita nuova, anche nel deserto dell’Età della Tecnica. Dio ha bisogno degli uomini, diceva Giussani rifacendosi a un vecchio film di Delannoy, e forse non è mai stato così vero quanto in questo nostro tempo: certo, almeno fino a due anni fa, di potere ogni cosa, e che ora vede la sua perfetta orgogliosa costruzione incrinarsi. Questo tempo d’Occidente che guarda con stupore e ammirazione all’Ucraina, in lotta con le unghie e coi denti per la sua libertà: quasi laggiù credessero davvero in qualcosa. Come in qualcosa – Dio, o libertà, o eguaglianza, o patria, o fratellanza – ottant’anni fa ancora credevamo noi.

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