giovedì 3 marzo 2011
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Una sana "sfida" all’ateo, perché sia davvero senza idoli. E rimanga capace di aprirsi a «un’attesa dell’inatteso» che può avere il volto di Cristo, il Dio rifiutato dai credenti del suo tempo. Fabrice Hadjadj, filosofo francese convertitosi al cristianesimo, interverrà questa sera all’Università Cattolica, su iniziativa del Centro culturale di Milano (Aula Magna, ore 21), su "Modernità e modernismo. A proposito del senso religioso".Dio. Possiamo parlarne con ii non credenti?«Bisogna riconoscere che la prima difficoltà consiste nel discuterne coi credenti. Ce lo insegna il Vangelo: Gesù non si rivolge ad atei, ma agli specialisti della fede, scribi e farisei. Egli vuole rivelare loro il mistero del Padre. Ma essi non lo comprendono, addirittura finiscono per crocifiggerlo. Facciamo fatica ad ammettere che furono alcuni credenti a metter a morte il Figlio di Dio. Quando si crede bisognerebbe lottare per non ridurre Dio a un piccolo idolo domestico. Questo nome dovrebbe aprirci la gola come un abisso. E invece lo pronunciamo come una banalità concettuale. Se lo pronunciassimo con la vertigine dell’innamorato! Prima della mia conversione non sopportavo che si pronunciasse la parola "Dio": la consideravo come un jolly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte. Mi suonava come un modo per evitare i problemi e misconoscere la tragedia della vita».Come "verificare" l’idea, spesso confusa, di Dio?«Egli non abolisce il dramma dell’esistenza ma lo compie. È quanto rivela il mistero della Croce. I credenti vi crocifiggono sopra Dio e Dio grida a Dio: Perché mi hai abbandonato? Non è qualcosa di abissale? Non è forse vero che questo distrugge ogni nostro idolo e ci riporta al dramma dell’"amore forte come la morte"? È necessario che i credenti riconoscano tale dramma e vivano il secondo comandamento, il quale ci domanda di non pronunciare invano il nome di Dio. I non credenti potranno intenderlo meglio». Parla per esperienza?«Sì. La mia fu anche una conversione "linguistica". Ho scoperto che il significante "Dio" corrispondeva alla verità del "Sì" di Friedrich Nietzsche e dell’"Aperto" di Rainer M. Rilke. E che non era un atteggiamento poetico o un concetto filosofico, ma la realtà di una Persona che mi aveva preceduto nel fondo dell’oscurità. "Dio" non significava più una soluzione ma un’avventura. Non una risposta ma un appello. Non si tratta di una strategia di marketing. Quando troveremo il modo migliore per parlare di Dio, non è sicuro che l’altro, ascoltandoci, si converta. Se parliamo di Dio imitando la forza di Gesù, alcuni si convertono, altri finiscono per crocifiggerci. È il segno che abbiamo parlato bene». Lei ha definito la spiritualità «un trucco del diavolo». Su cosa confrontarci con gli atei?«Sulla sessualità. Nel mio Mistica della carne mostro che il sesso ci rimanda alla profondità autentica, fino alle viscere di Dio. In principio Dio crea l’uomo a sua immagine, maschio e femmina, in modo che la loro relazione sessuale, con la sua fecondità naturale, diventi l’immagine della Trinità. Qualunque sia il punto di partenza, anche una margherita o una lumaca, se ne parliamo correttamente, dobbiamo risalire a Dio: non va relegato nelle altezze ma va fatto comparire nel più "basso". Il cristianesimo è il contrario dello spiritualismo, e spiritualità dell’incarnazione: il Verbo si è fatto carne e si dona a noi mediante un atto spirituale e carnale, l’eucaristia. I sacramenti sono i tocchi di Cristo. Certo, per andare verso Dio dobbiamo recarci da quel prete che ci sta antipatico, da quel cristiano che ci dà fastidio sulla sedia accanto, da quel povero per invitarlo a tavola». Di recente l’apologetica ha ripreso quota. Ma lei non ha scritto parole tenere nei suoi confronti …«Non ho niente contro l’apologetica. È quanto cerco di fare io stesso proprio adesso. Ma vi è il pericolo di restare al livello del dibattito delle idee. Il cristianesimo non riguarda un’ideologia: è una vita. E la sua anima si trova nell’amore. Quando separiamo l’amore dalla verità cadiamo nel sentimentalismo. E se allontaniamo verità e amore, scadiamo nel dogmatismo. La Verità propria del cristianesimo è una Persona, non una teoria. E Dio stesso non è una natura anonima, ma una comunione di Persone. Molte saggezze filosofiche pretendono che la realizzazione dell’uomo consista in una conoscenza teorica o in uno stato di serenità. Il cristianesimo propone altro: un incontro. Per fare buona apologetica serve questo: prima del confronto ideale, meravigliamoci del volto del nostro interlocutore; e anche se lui non ha compreso nulla e alla fine ci infastidisce, continuiamo ad ammirare in lui la meraviglia che Dio contempla e che lui stesso, l’ateo, ignora». Nel suo libro-intervista Benedetto XVI sottolinea il rapporto, positivo e fecondo, tra cristianesimo e modernità. Quali gli aspetti di tale relazione che arricchiscono la fede?«La modernità pone due esigenze. La prima è di natura critica: l’uomo moderno rifiuta di ricevere qualcosa solo perché trasmesso dai suoi genitori. Reclama delle ragioni e vuole comprendere. Ma può essere ambigua: o conduce ad un ripiegamento mortale su se stessa oppure guida ad una maggior intelligenza della fede. Secondo: l’uomo moderno desidera una pienezza "qui e ora". Perciò rompe con l’aldilà. Ora, il nodo è che noi non siamo mai "qui e ora" a noi stessi. Il tempo fugge e, quando siamo da qualche parte, progettiamo di andare altrove. Manchiamo alla presenza. Non siamo mai gli uni con gli altri. Per essere del tutto presenti, dovremmo coincidere con l’essere e poter dire: "Io sono colui che sono". Questo è il privilegio dell’Eterno. Per questo volgersi verso di Lui non è fuggire il "qui e ora", ma approcciarsi ad esso e cercare di essere più presenti a tutto e a tutti». Nel suo "La fede dei demoni" lei critica i "nuovi atei" come Michel Onfray, esempio dell’ateo "sbagliato" che "non cerca più". I non credenti sono tutti così?«Va rimproverato agli atei di non essere ciò che loro pretendono di essere. Un ateo è qualcuno "senza dio", uno che deve disfarsi di tutti gli idoli, sforzandosi di non rendere il proprio ateismo un idolo. Sarebbe triste liberarsi della religione di Cristo per fabbricarsene una dell’ateismo. È quanto capita nella maggior parte dei casi. Essere veramente atei rappresenta qualcosa di veramente difficile. Quando si abbandona il Dio trascendente, ci si confeziona altri idoli: ragione, razza, rivoluzione, mercato ... Visto che non siamo Dio ma esseri di desiderio, abbiamo bisogno di un principio per polarizzare le nostre vite. Ho cercato di essere il più possibile ateo. Alla fine, sbarazzatomi di ogni idolo, mi è rimasta la disponibilità di accogliere quanto non veniva da me, ciò che per alcuni è la trascendenza e che il catechismo chiama Rivelazione. Tale disponibilità consiste in un’apertura all’incontro. Eraclito la definiva "l’attesa dell’inatteso", un’apertura che si offre in un avvenimento che ci giunge attraverso una moltitudine di testimoni: la "tradizione apostolica". Una serie di incontri partiti da Gesù e giunti fino a me».
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