sabato 6 novembre 2021
Una raccolta di saggi scritti negli ultimi 20 anni mette in luce la metodologia che porta a smascherare il falso o le imposture nella lettura tra le righe dei documenti e delle verità condivise
Il monumento alla scoperte a Lisbona

Il monumento alla scoperte a Lisbona - Martine Auvray / Pixabay

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Lo storico moderno, dopo Nietzsche e i maestri del sospetto è, quasi sempre, un cacciatore di falsi o un decostruttore di finzioni. Falso e finto sono un tema che ricorre nell’ultimo libro di saggi di Carlo Ginzburg, La lettera uccide (Adelphi, pagine 252, euro 30,00). Già alla fine degli anni Settanta lo storico pubblicò nel volume La crisi della ragione, curato da Aldo Gargani, un saggio dove il “paradigma indiziario”, interloquendo con Freud, Giovanni Morelli e Conan Doyle, voleva dimostrare come la ricerca storica consista anzitutto in casi da risolvere, muovendosi con un metodo à la Sherlock Holmes. Difficile dire, tirando in ballo anche Agatha Christie, se per uno storico tre indizi costituiscano una prova, tuttavia dopo Nietzsche il compito del ricercatore non è tanto raggiungere il vero ma smascherare il falso, l’impostura, il travisamento di documenti scritti o figurati, i paralogismi nelle tesi, gli errori delle traduzioni. Nel capitolo “Rivelazioni involontarie” Ginzburg ricorda appunto che «Vico cercò il vero nel falso e nel finto».

Il convivio delle culture non è più una “mensa comune” perché la globalizzazione ha reso ancor più imponente la Torre di Babele e «la pluralità delle lingue, e la loro reciproca traducibilità, è diventato un problema – nonostante la prevalenza dell’inglese, o forse proprio per questo». Tradurre è interpretare, tradurre è anche tradire, ma come si fa a sapere con quali logiche di appropriazione o di assimilazione si giunge a velare la verità del discorso originale? Si cita sempre il detto di Warburg «Dio si nasconde nel dettaglio», ma esiste anche una tradizione antica, dei primi secoli cristiani, ripresa da André-Jean Festugière con un’allusione probabile al discorso sull’“Uomo perfetto” di Monoimo l’Arabo. Questi alla fine del II secolo, riflettendo sulla lettera iòta come simbolo dell’origine del creato, disse: «Dio è in uno iòta sottoscritto». D’altra parte, con tutt’altra prospettiva, è nota anche la massima dell’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, less is more, il meno è il più, che affermava una sorta di metonimia a tutto vantaggio del dettaglio di cui Mies ebbe grande e maniacale cura nei suoi edifici; questa etica del particolare gli derivava dallo studio del pensiero tomistico e dall’amicale vicinanza del teologo Romano Guardini.

Il dettaglio, dunque, è la porta per accedere al segreto di tutto? Indagare in questa direzione si sposa, nella visione “storico-critica” di Ginzburg, con un metodo che egli definisce «intensificare il caso», che è anche un mettere alla prova le verità acquisite, ma per farne emergere il lato in ombra, laddove il libro parte dalla misteriosa espressione paolina nella Seconda lettera ai Corinzi «La lettera uccide, lo spirito dà la vita». Ma se Dio non gioca a dadi con l’universo, lo storico invece quei dadi li tira affinché il caso gli apra una “involontaria” direzione di ricerca, sembra sostenere Ginzburg.

È un libro complesso, questo che lo storico dedica a Roberto Calasso, dove attraverso una ricomposizione di “marginalia” redatti negli ultimi vent’anni di studi delinea in realtà una metodologia fondata sui “casi specifici” che risultano, alla fine, una forma particolare di inventio, di reperimento degli elementi necessari a continuare una ricerca che partendo dalla microstoria ha davanti a sé la generalizzazione, l’universale.

Dopo aver introdotto la coppia dialettica elaborata mezzo secolo fa dall’americano Kenneth L. Pike – etic (lo studio di lingue e culture da una prospettiva comparata) ed emic (che studia casi specifici da una lingua o una cultura) – Ginzburg scrive che lo storico «parte da domande etic per cercare di ottenere risposte emic» ma, viceversa, «risposte emic provocheranno domande etic». Il fatto è che si tratta di «costruire casi che potranno fondare delle generalizzazioni».

Ed è proprio il termine costruire a mettere alla prova l’"intensificazione del caso", mentre la domanda riequilibra il quadro. Oggi – nota l’autore –, anche grazie ai cataloghi online delle biblioteche, partendo da una sostanziale mancanza di riferimenti e introducendo vocaboli chiave di ricerca il computer «moltiplica la possibilità di essere colti di sorpresa da un dato di fatto imprevisto». Non è poi una slot machine surrealista quella che Ginzburg propone, non il meccanismo del cadavre exquis , anche se ammette che ci si muove un po’ come l’artista che utilizza l’objet trouvé; eppure qualcosa riprende questo modo di fare, poiché già «i filosofi antichi ci hanno insegnato che la meraviglia, la sorpresa generano la conoscenza».

Oggi è il computer a sollecitare il pensiero, come al tempo di Leonardo l’immaginazione poteva essere attivata dalle macchie d’umidità sul muro. Nel capitolo dedicato all’etnofilologia – un termine introdotto da antropologi americani che studiavano alcune tradizioni orali – Ginzburg premette ciò che è implicito nell’idea stessa di traduzione: «è un processo senza fine». Quante versioni hanno dato i poeti di un testo scritto in una lingua straniera di cui dovevano rendere il senso e la forma con parole proprie?

Il caso di Garcilaso de la Vega, detto “el Inca” (il padre era spagnolo e la madre quechua), che nel XVI secolo scrive i Commentari reali degli Inca, è esemplare: attraverso la stessa lingua spagnola Garcilaso mette in luce le distorsioni prodotte dalle traduzioni dei conquistatori e in questo modo rende giustizia alla lingua materna. Il suo motto era: « Con la espada, con la pluma». In questo modo «smascherò la cieca arroganza dei colonizzatori».

Un caso palmare, dunque, di «lettera che uccide». Ma quando, come già ricordato, noi leggiamo le traduzioni che i poeti fanno dei loro simili, il concetto di «traduzione inadeguata» vale e non vale. Nella poesia restare nella lettera uccide quasi sempre il testo di partenza, mentre l’interpretazione può essere come lo spirito che dà la vita. Insistere sulla ricchezza delle anomalie, ciò che si distanza da qualsiasi canone, è imparare a leggere tra le righe del testo ciò che vi si cela d’“involontario”, in un arco di riferimenti che da Delio Cantimori arriva a Leo Strauss.

Ogni saggio di questa raccolta è una messa alla prova della tesi generale che insegue «la possibilità di sovvertire, grazie alla microstoria, gerarchie preesistenti di natura politica e storiografica». Che dal cristianesimo che si muove con un complesso di superiorità versus Israel («un frutto nato da una radice dolorosamente ambigua») può far emergere tra le righe le ragioni di una secolare persecuzione antigiudaica.

Ginzburg, che si dichiara ebreo ma anche ateo, analizza le idee di un ex mercante di vini vissuto nel XVIII secolo, Jean-Pierre Purry, che propose alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali un piano di colonizzazione usando come grimaldello la Bibbia e la conquista della terra promessa degli israeliti dove Dio – sulla base dell’imperativo scritto nel Deuteronomio –, ordina al suo popolo di sterminare i Cananei, senza risparmiane donne e bambini; brillantemente egli argomenta che se la terra è di Dio e l’uomo ne ha soltanto l’usufrutto, la terra è di tutti: ma si tratta di dimostrarne il legittimo possesso mediante un’azione operosa (mentre i selvaggi, si sa, per un occidentale sono oziosi), al limite con l’uso della forza. La colonizzazione diventa, mutatis mutandis, un segno di predestinazione simile a quella attraverso cui Weber interpreta l’etica protestante dei capitalisti americani. A dividere Purry da Weber soltanto l’atteggiamento verso le cose: per il primo dovevano essere una fonte di piacere, mentre per il secondo erano quasi ininfluenti in ragione della morale ascetica che muove gli affari dell’imprenditore protestante.

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