martedì 12 aprile 2016
CARLO CARRÀ, ritorno a se stesso
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Quattro uomini vestiti di scuro e con il cappello in testa entrano d’impeto, il 30 giugno 1911, nel caffè 'Giubbe rosse' a Firenze, ritrovo abituale di letterati e artisti in pieno centro storico, nei pressi della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. I quattro, giunti da Milano, si avvicinano al tavolo dove il pittore Ardengo Soffici chiacchiera insieme a Giuseppe Prezzolini e Medardo Rosso. Uno dei nuovi arrivati, che li guida con piglio sicuro tra gli altri avventori seduti nel caffè, prorompe: «È lei Soffici?». Questi ha appena il tempo di alzarsi che vola il primo schiaffo, preludio della rissa che coinvolgerà l’intera saletta del 'Giubbe Rosse', famosa ancora oggi a causa di quel caotico incontro tra futuristi milanesi e letterati fiorentini. Perché i quattro, che hanno preso apposta il treno dal capoluogo lombardo per giungere sulle rive dell’Arno, sono il poeta Filippo Tommaso Marinetti che li capeggia; Umberto Boccioni che assesta lo schiaffo; Luigi Russolo e Carlo Carrà, in una posizione più defilata rispetto ai primi due. Soffici è colpevole ai loro occhi di avere stroncato con una recensione su La voce la mostra dei futuristi organizzata a Milano, definendola dopo averla visitata una «delusione sdegnosa ». Perciò la spedizione punitiva, che avrà come ripercussione immediata una seconda zuffa la sera seguente alla stazione di Santa Maria Novella, all’interno della quale Soffici con Prezzolini, Slataper e Spaini, intercetta il drappello futurista pronto per il rientro. Infine, inutile dirlo, scoppierà la pace tra artisti fiorentini e futuristi, grazie soprattutto all’instancabile opera mediatrice dello scrittore Aldo Palazzeschi. Tant’è che su Lacerba, la rivista fondata a Firenze nel 1913 da Papini e Soffici, collaboreranno tra gli altri Marinetti, Boccioni e Carrà. Gli articoli di quest’ultimo saranno tesi a spiegare la propria visione pittorica in chiave futurista, influenzata in modo originale sia dai trascorsi divisionisti che dal soggiorno parigino agli inizi del ’900. Ma procediamo con ordine: Carlo Dalmazzo Carrà, nato a Quargnento (una cittadina nella piana di Alessandria) l’11 aprile 1881, si è spento a Milano mezzo secolo fa, il 13 aprile 1966. Orfano in tenera età della madre e con la famiglia in ristrettezze economiche, appena dodicenne fu collocato dal padre (ex proprietario terriero ora calzolaio) presso degli artigiani decoratori impegnati a restaurare una villa a Valenza Po. Il secondo lavoro fu come garzone muratore a Milano. Durante la lunga malattia che, adolescente, lo aveva costretto a letto, apprese i primi rudimenti del disegno che andarono ad alimentare la sua voglia di conoscere e di diventare un artista. Frequentò con tenacia diverse scuole serali, al termine di quelle faticose giornate di lavoro, tra cui la Scuola superiore d’arte applicata all’industria del Castello Sforzesco. La svolta sopraggiunse nel 1900 allorché, in occasione dell’Esposizione universale, si recò a Parigi ritrovandosi a tu per tu con i capolavori della pittura d’oltralpe, dal Romanticismo al Realismo e Impressionismo, da Delacroix a Courbet e Mo- net. A Londra, si entusiasmò dinanzi alle opere di Constable e Turner. In questo stesso periodo, iniziò a interessarsi di politica, entrando in contatto nella capitale inglese con alcuni gruppi anarchici. Il ritorno a Milano, l’iscrizione prima alla Scuola del Castello e in seguito all’Accademia di Brera, coincise con un altro episodio di capitale importanza per Carrà: i funerali dell’anarchico Galli. Questi i fatti: il 6 maggio 1906, dopo la sparatoria delle guardie regie sulle operaie tessili in agitazione, a Milano fu proclamato lo sciopero generale. Angelo Galli si recò insieme ad altri a picchettare l’azienda siderurgica Macchi e Passoni di via Farini, dove venne accoltellato da uno dei custodi. Ai funerali, aperti da quindici enormi bandiere rosse e nere, partecipò anche il giovane artista sperduto tra la folla ondeggiante, commossa e piena d’ira, tanto da alimentare altri scontri con le forze dell’ordine che caricarono sguainando le spade. Qualche anno dopo, nel 1910 11, avendone ancora impresso nella memoria il ricordo, Carrà compose un olio su tela di circa due metri e mezzo per due, oggi al MoMA di New York, riportando così la vicenda nella sua autobiografia: «Io che mi trovavo senza volerlo al centro della mischia, vedevo innanzi a me la bara tutta coperta di garofani rossi ondeggiare minacciosamente sulle spalle dei portatori; vedevo i cavalli imbizzarrirsi, i bastoni e le lance urtarsi… Fortemente impressionato, appena tornato a casa feci un disegno di ciò di cui ero stato spettatore. Da questo disegno presi più tardi spunto per il quadro che venne in seguito esposto alle mostre futuriste di Parigi, Londra e Berlino nella primavera del 1912». Dall’amicizia con Boccioni, nacque l’adesione di Carrà al nuovo movimento artistico, divenendo nel 1910 uno dei cinque sottoscrittori del Manifesto tecnico della pittura futurista.  Anche se fu sempre un futurista abbastanza singolare, considerando quella matrice divisionista mai abbandonata e che, anzi, verrà rielaborata in senso dinamico e di un colore capace di generare sulla tela dei vortici aerei, privi di un unico punto gravitazionale. Inoltre, a fronte dei temi nazionalisti avanzati dai colleghi, in Carrà esiste questa vocazione - se non una vera e propria adesione - anarchica, rafforzata dal legame sentimentale con la scrittrice e politica Leda Rafanelli. Ancora, mentre il vate Marinetti ritiene la guerra «unica igiene del mondo», Carlo Carrà, seppur interventista, è uno dei pochi esponenti futuristi a non arruolarsi volontario allo scoppio della guerra ma ad attendere, nel 1917, la chiamata alle armi preceduta dalla mobilitazione generale. Già due anni prima aveva abbandonato Marinetti e colleghi per «divergenze e incompatibilità di idee».  Il grande conflitto rappresentò per lui una prova tanto estrema da finire ricoverato nel nosocomio di Pieve di Cento e, successivamente, all’ospedale militare di Ferrara specializzato nelle nevrosi da guerra. Qui, nella città estense, conobbe Filippo de Pisis e i fratelli de Chirico, aprendosi alla Pittura Metafisica per approdare, a Roma nel ’19, a Valori Plastici. Un ritorno a Giotto e ai primitivi italiani che si configurò come un ritorno a se stesso, a Carlo Carrà.
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