giovedì 16 luglio 2015
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Ogni alpino sa che, quando arriverà l’ora di “andare avanti”, sulla soglia del Paradiso troverà il Generale. Piantato sulle gambe larghe, con il pastrano nero e il cappello con la penna, “el Vecio” lo accoglierà con una stretta di mano e aggiungerà anche il suo nome ai tanti che lo precedettero. Lassù, in questo Paradiso parallelo e riservato soltanto ai soldati morti con il cappello in testa, il generale Antonio Cantore da cent’anni passa in rassegna i suoi uomini. Battaglioni e batterie da montagna rispondono sull’attenti ai suoi comandi, mentre lui passeggia con la mani incrociate dietro la schiena e il mento affondato nel bavero dell’impermeabile.Montanaro di mare, Antonio Cantore nacque a Sampierdarena (Genova), il 4 agosto 1860 da un ferroviere e una casalinga. Entrato diciottenne alla Scuola militare di Modena, diventa ufficiale poco più che ventenne e colonnello all’alba del Novecento. Nel 1909 costituisce l’8° Reggimento alpini, di cui è il primo comandante. La sua stella comincia a brillare nel 1912 sul fronte sabbioso e torrido della Libia (da dove tornerà con la decorazione dell’Ordine militare di Savoia), ma il suo mito viene scolpito nelle rocce delle Dolomiti. Il 24 maggio del 1915 lo coglie in Trentino e, appena tre giorni dopo, otterrà la prima, importante vittoria, entrando trionfalmente ad Ala, alloro sotto la dominazione austriaca. Fondamentale per quella vittoria fu il contributo di una giovinetta, Maria Abriani, che guidò gli italiani dietro le linee nemiche. Per il suo coraggio fu decorata con la medaglia d’argento al Valor militare, la prima attribuita a un civile e, per giunta, donna.La repentina conquista di Ala rafforzò la figura di Cantore presso gli alti comandi, cui contribuì anche il vate Gabriele D’Annunzio, che dell’impresa del generale parlò nella sua “Preghiera per i combattenti”: «Il valor rise come il fiore sboccia / Ala, una città presa per amore! / E l’eroe d’Ala avea nome Cantore / E il suo canto è scolpito nella roccia».Trento è lì a un passo e i soldati già sognano di entrarvi da trionfatori dietro il Generale. Ma prima bisogna conquistare le Tofane. Qui passa la linea del fronte e Cantore vi giunge il 20 luglio. Dalla trincea, battuta dal fuoco nemico, si erge per controllare la situazione. «Signor generale, non vada», lo implora il comandante delle guardie, informandolo dell’uccisione, pochi minuti prima, di due soldati usciti allo scoperto. Cantore non lo sente nemmeno e, binocolo alla mano, si pianta sulle gambe a scrutare l’orizzonte. Un colpo solo, dritto in fronte. Cantore, senza un grido, cade colpito a morte. E qui, sulla Forcella Fontana Negra delle Tofane, la sua storia diventa mito. La salma è portata a spalla dagli alpini fino al piccolo cimitero di Cortina, dove viene posta in una semplice tomba a terra. La notizia della morte del “Vecio” corre veloce di trincea in trincea e ciascuno, anche chi non l’aveva direttamente conosciuto, aggiunge un ricordo personale, un aneddoto del suo eroismo, che va ad alimentarne la leggenda. Nel suo nome si combattono battaglie e, quando la sorte non è propizia, tra gli uomini dilagano sconforto e nostalgia: «Se ci fosse Cantore, saprebbe ben lui....», dicono l’un l’altro, come per farsi coraggio solo pronunciandone il nome.A guerra finita, la neonata Associazione nazionale alpini adotta la figura del Generale e nel 1920 contribuisce con 250 lire alla raccolta fondi per la costruzione di un monumento a Cortina. Nel 1922 è inaugurato il rifugio, che porta il suo nome, a Punta Marietta, sulle Tofane, a poca distanza dal luogo dove morì. A quel tempo, direttore del giornale associativo “L’Alpino” è Maso Bisi, giornalista del Corriere della Sera, e autore di una biografia del comandante alpino in cui immagina una sorta di Paradiso delle penne nere. Quella di Bisi non era una novità assoluta, perché già nel 1918 E.A. Mario, stravagante pseudonimo di Giovanni Gaeta, l’autore, tra l’altro, della “Leggenda del Piave”, nel poemetto “Incontri” immagina Cantore in Paradiso alla ricerca dei suoi “Scarponi”. La versione di Bisi è però senz’altro la più conosciuta e quella che ha definitivamente consacrato, tra gli alpini, il mito del Generale.«Cantore andò in Paradiso – scrive Bisi –. Tutti gli alpini che muoiono con il cappello in testa vanno in Paradiso. Perché dalle cime a lassù non c’è che un passo. Ma quando “el Vecio” vi giunse vi trovò pochi alpini. Non ne erano morti ancora molti, in quei tempi».Cantore, infatti, cadde il 20 luglio 1915, dunque nelle prime settimane di guerra. Per questo, come scrisse sempre Bisi, «pochi l’hanno conosciuto», ma «la sua gloria ingigantì giorno per giorno nella lunga stagione di guerra». «Dire Cantore fu come dire tutta la gloria degli Alpini», vergò definitivamente il cronista, anticipando, anche nella retorica, il presidente dell’Ana, Angelo Manaresi. Che, il 17 agosto 1930, a quindici anni dalla morte di Cantore, ai piedi delle Tofane, lo celebrò così: «Per gli alpini, egli era un dio: tutto otteneva da loro perché egli loro tutto donava: si creava tra capo e soldati quella divina comunione di spiriti che è fucina di ardimenti e di eroismo, segreto infallibile di vittoria».Depurata dall’enfasi del periodo, ancora oggi la figura di Cantore è tramandata dagli alpini del terzo millennio che, quando “vanno avanti”, ritrovano amici e commilitoni nel Paradiso del Generale. Abitato da qualche santo, alcuni eroi e da tanti, tantissimi uomini semplici. Che sono poi i più cari al Vecio.
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