sabato 19 maggio 2012
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Un viaggio nell’Italia di oggi seguendo la lenta, inesorabile discesa agli inferi di un uomo che perde la propria identità inseguendo sogni illusori. Una favola moderna in cui il piano della realtà e quello della fantasia si mescolano dando vita a una dimensione sospesa, quasi onirica, dove non è così difficile smarrirsi nel proprio immaginario.A quattro anni dall’exploit di Gomorra, Matteo Garrone voleva superare la cosiddetta ansia di prestazione e tornare al cinema con una commedia leggera, divertente. Per lui Reality, presentato ieri in concorso a Cannes e accolto da una doppia dose di applausi, è quasi come un cartoon della Pixar, colorato, fantasioso senza mai cadere nel trash e nel grottesco. Invece la sua Italia sedotta dalla tv è altrettanto inquietante di quella conquistata dalla camorra. Prodotto dallo stesso Garrone e Domenico Procacci (insieme alla Francia e con il contributo di Intesa San Paolo impegnato a sostenere il cinema italiano di qualità) e cosceneggiato dal regista con Maurizio Braucci, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, il film arriverà nelle nostre sale arriverà il 28 settembre distribuito da 01.Luciano, un pescivendolo che insieme alla moglie arrotonda lo stipendio con piccole truffe, si lascia convincere dalle figliolette, da nipoti e zie a partecipare al provino del Grande Fratello. Qualcosa gli fa pensare che ce la farà. Ma l’attesa di una risposta dalla produzione si fa sempre più stressante e Luciano si convince che lo stiano spiando per metterlo alla prova. Diventa così paranoico da pensare che persino un grillo sul muro di casa lo stia osservando. Nel disperato tentativo di mettersi in buona luce, l’uomo comincia a regalare tutto ciò che possiede, perdendo anche moglie e figli. Una mano arriva dall’amico Michele: lui ha fede, il suo Paradiso è altrove, non certo nella casa di un reality show. Luciano sembra cambiare: frequenta la parrocchia, lavora alla mensa dei poveri, va persino in pellegrinaggio a Roma partecipando a una Via Crucis che diventa metafora del proprio doloroso percorso. Ma poi la follia se lo riprende. «Mi sono imbattuto in questa storia piccola – dice il regista – realmente accaduta a Napoli. Non vi era alcun intento di denuncia sociale, ma solo la voglia di ricollegarsi alla gloriosa tradizione del cinema italiano, da Lo sceicco bianco di Fellini a Bellissima di Visconti, da Matrimonio all’italiana e L’oro di Napoli di De Sica alla malinconia del teatro di Eduardo. Qualcuno vedrà nel protagonista un emblema della nostra contemporaneità, io volevo solo mostrare il labile confine tra realtà e sogno senza mai perdere di vita la verosimiglianza. Nella mia storia la famiglia funziona da detonatore, è proprio lì che comincia il contagio. Ma non giudico i miei personaggi, li osservo mettendomi alla loro altezza: perché non dovrebbero sognare una vita migliore?».Su uno sfondo dove convivono palazzi del Settecento e "non luoghi" come centri commerciali, outlet e parchi acquatici, dove musiche, scenografie, costumi e luci contribuiscono a creare una dimensione astratta, si muove il protagonista, a metà strada tra Totò e Robert De Niro. Aniello Arena non è a Cannes: detenuto da vent’anni nella Fortezza di Volterra (sono carcerati anche i protagonisti dell’ultimo film dei Taviani), non ha ottenuto il permesso di partecipare al Festival. «Avrei voluto Aniello anche in Gomorra – dice Garrone – ma il magistrato non lo consentì. Nel film lui porta un candore e un’innocenza legati al fatto che durante le riprese ha scoperto un mondo che non frequenta più da due decenni. È una sorta di moderno Pinocchio, il suo è uno sguardo puro».​
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