sabato 2 gennaio 2010
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Aveva ricevuto il Nobel a soli 44 anni, nel 1957, come tributo per La peste. Di lì a tre anni, il 4 gennaio 1960, trovò la morte a bordo della sua Facel-Véga mentre tornava a Parigi in compagnia dell’editore Michel Gallimard (deceduto anch’egli dopo pochi giorni). Troppo giovane per morire, Camus è stato soprattutto filosofo o scrittore? In uno dei Taccuini pubblicati alcuni anni fa, da par suo, risolveva la questione con un rapido tratto di penna: «Sono prima di tutto un artista. Ed è l’artista dentro di me che filosofeggia, per la semplice ragione che penso secondo le parole, e non secondo le idee». Non credeva abbastanza nel potere della ragione per aderire ad un sistema di pensiero, ma ciò nulla toglieva al carattere teoretico, anzi metafisico, dalla sua opera. In questi termini lo studioso Antonio Rinaldis - che ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università Cattolica di Milano sotto la guida di Francesco Botturi - ha scelto di studiare il rapporto di Camus con il sacro, in una ricerca che verrà pubblicata a breve di cui ci fornisce qui alcune anticipazioni. Professor Rinaldis, prima di affrontare direttamente il tema del 'sacro', partiamo dalla questione forse più difficile: come qualificare la filosofia di Camus? «Roger Quilliot, in un volume apparso nel 1997, la definisce come la composizione di tre elementi, non facilmente conciliabili: 'da una parte un ateismo risoluto, un amore appassionato e pagano per la vita, infine una profonda esigenza di giustizia». In maniera efficace, queste parole rappresentano la sintesi di tre pregiudizi che si sono progressivamente consolidati intorno al pensiero di Albert Camus». Egli si confrontò più volte con la fede cristiana, ma non giunse mai ad aderirvi. Come si declinava questa assenza di fede? «Essenzialmente dalla sua scelta di negare l’immortalità dell’anima. In altri termini, Camus rifiutava la speranza cristiana, perché la interpretava come una forma di rassegnazione fatalistica. Per questo motivo Charles Moeller inserisce Camus nella 'letteratura della felicità e non in quella della salvezza': se la salvezza è un’evasione irrazionale, l’unica certezza rimarrebbe circoscritta al mondo sensibile, della felicità puramente umana e terrena. Secondo molti critici in Camus ci sarebbe una saldatura fra lo scetticismo empirista e una razionalità dissacrante. Il risultato sarebbe quello che Albert Maquet definisce come 'l’impossibilità di aprirsi a una verità assoluta'». Camus non crede ma, nel contempo, rifiuta di essere annoverato fra gli 'esistenzialisti'… «Infatti. Il destino di Camus è piuttosto singolare. Impossibilitato a collocarsi dalla parte del cristianesimo, se così possiamo dire, viene però respinto anche dai maggiori rappresentanti dell’esistenzialismo, come Sartre che, definendolo 'anti-teista', lo accusa di occuparsi troppo di Dio e troppo poco dell’uomo e dell’ingiustizia sociale». La critica cattolica come qualifica la sua spiritualità? «Per Remo Cantoni la sensibilità di Camus non si tradurrebbe in un orgoglio del soggetto pratico, ma diventerebbe una forma di umanesimo integrale, che manifesta la nostalgia di un assoluto, che però non riesce mai a raggiungere». E’ un’osservazione interessante, che mi sembra riporti l’attenzione sui tre punti iniziali, su cui lei ha lavorato nella sulla ricerca su Camus: è così? «Esattamente. I tre elementi identificati da Quilliot - ateismo, paganesimo e giustizia - possono essere letti in maniera diversa alla luce della categoria del sacro, inteso secondo le parole di Johann Peter Hebel: 'Che lo si ammetta o no, siamo piante che debbono crescere radicate nella terra se vogliono fiorire nell’etere e dare i loro frutti'. Se accettiamo questa chiave di lettura il sacro sarebbe l’ entre- deux , l’intervallo fra cielo e terra, tra umano e divino». Camus affronta direttamente il tema del sacro nei suoi scritti? «No, anche se è sempre una presenza incombente. Non esiste una vera e propria teoria del sacro in lui, in primo luogo per il suo rifiuto di una filosofia sistematica. E’ possibile però individuare elementi frammentati e disseminati di sacralità, in tutte le sue opere, di saggistica come di letteratura. In primis, lo studio su Plotino e Agostino, che è la sua tesi di laurea in cui vengono in luce alcuni elementi chiave: la commistione fra dimensione artistica e dimensione religiosa; il desiderio verso il divino; l’assurdo come divorzio fra l’io e il mondo, impensabile se non ci fosse una radicale eccedenza del soggetto umano nei confronti della realtà, fatta di nostalgia d’assoluto; il teatro dell’impossibile, mirabilmente sintetizzato nella figura di Caligola che rappresenta lo iato fra l’aspirazione umana alla felicità assoluta e il silenzio del mondo, che nella pièce si risolve nella follia totalitaria dell’imperatore». Anche nell’idea di rivolta, tanto cara a Camus, vi è qualcosa di trascendente? «Direi proprio di sì. L’idea è legata all’archetipo della natura umana, affermata e difesa contro ogni sopruso: quindi ogni rivolta è retrospettiva e nostalgica. Ciò spiega la diffidenza di Camus nei confronti degli storicismi, come quello marxista, che ponevano il fine della storia al termine del processo storico, giustificando ogni azione posta al servizio di un’utopia che si costruiva con il divenire». In conclusione, come si pone il sacro nella vasta opera di Camus? «Non si presenta mai come possesso, ma nel suo lato soggettivo è desiderio nostalgico, che si trasforma in tragedia per l’impossibilità di trovare accordo e riconciliazione. Camus è il pensatore della tensione esistenziale verso la trascendenza, che l’uomo della modernità non riesce più a credere di poter incontrare. Nello stesso tempo è anche il più attento e vigile smascheratore delle false credenze di un umanesimo integrale che ha negato il divino, e che con ciò rischia costantemente di cadere vittima del delirio della storia o della tecnica».
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