mercoledì 21 dicembre 2011
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​I cinquant’anni del Vaticano II, ormai alle porte, non possono non indurre a tornare a riflettere su uno dei grandi temi conciliari, quello della «Chiesa dei poveri»: una riflessione tanto più necessaria all’approssimarsi di una festa, quella di Natale, che è la celebrazione del Cristo povero, ultimo degli ultimi, punto di riferimento obbligato per quanti intendono essere autenticamente cristiani. Il rapporto fra la Chiesa e i beni della terra è stato fra i più complessi e travagliati della storia, e tuttavia (secondo una linea di tendenza sostanzialmente lineare nelle società occidentali) ha registrato in età moderna una progressiva presa di distanza dalle tentazioni della ricchezza. Dove sono, oggi, le immense proprietà terriere delle antiche abbazie; i spesso lussuosi conventi nei quali riparavano, a volte forzatamente, i diseredati rampolli e le figlie senza dote dei nobili; le fastose regge dei vescovi-principi? Lo Stato laico (prendendo sul serio, anche se inconsapevolmente, l’evangelico richiamo alla «Chiesa povera») ha ormai fatto piazza pulita di antichi privilegi ed assoggettato il patrimonio ecclesiastico a dure spogliazioni, come la storia del Settecento e dell’Ottocento ad abundantiam insegna. È parso, ancora una volta, che Dio «scrivesse dritto per righe storte»… Chiunque conosca la sua storia e ad essa guardi senza paraocchi, deve riconoscere che la Chiesa che è in Italia non è mai stata così povera, così distaccata dal potere, e dunque così libera, come oggi. Resta tuttavia aperto un problema, quello della costante auto-riforma che prenda il posto delle riforme forzatamente subite e che non sono ormai più ripetibili (fortunatamente, occorre pur dirlo, grazie al riconoscimento del principio della libertà religiosa in tutte le sue implicazioni). Ormai da oltre cento anni – da quando Giovanni Giolitti abbandonò la politica persecutoria dei suoi predecessori – nessuna spogliazione dei beni della Chiesa è più intervenuta: ma proprio qui sta il problema, perché è inevitabile che i beni ecclesiastici, in questo modo, crescano in modo esponenziale e non vi sia più la «valvola di sfogo» rappresentata dalle spogliazioni laiciste. È dunque la Chiesa stessa che deve interrogarsi e domandarsi se per caso non riemergano antiche tentazioni  trionfalistiche, se non si riponga troppa fiducia nei mezzi materiali, se non si faccia affidamento sulle strutture piuttosto che sulle coscienze. Sono queste domande che non vanno poste a seguito delle permanenti, e quasi sempre immotivate, polemiche laiciste, ma in funzione della stessa immagine di una Chiesa che voglia essere «senza macchia e senza rughe». Viene qui alla mente un assioma del grande Rosmini delle Cinque piaghe: possedere le ricchezze non per servirsene ma per donarle; linea ripresa dal Vaticano II là dove esso afferma che «lo spirito di povertà… è la gloria e la testimonianza della Chiesa di Cristo» (Gaudium et Spes, n. 88). È appena il caso di sottolineare che questo «spirito di povertà» è riferito a tutta la Chiesa e non soltanto all’istituzione ecclesiastica: i lussi, gli sprechi, gli sperperi dei laici (cristiani) dovrebbero scandalizzare non meno di quelli (eventuali) dei presbiteri e dei religiosi. Confrontarsi con il Natale cristiano – non con il Natale godereccio e consumistico del disincantato Occidente – non può prescindere dal confronto con il Cristo-povero e dalla semplice lezione che proviene dal gelo della Grotta. Passa attraverso questa presa di coscienza la necessaria, e ricorrente, auto-riforma della Chiesa: senza bisogno che sia un arcigno e stantio anticlericalismo a darle l’imbeccata.
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