venerdì 3 novembre 2023
Una mostra con opere del Victoria and Albert riscopre il talento “spontaneo” dell’autrice vittoriana che cominciò a lavorare a 48 anni: empatia umana e verità, con un senso religioso
Julia Cameron, “Julia Jackson”, 1867, fotografia (particolare)

Julia Cameron, “Julia Jackson”, 1867, fotografia (particolare) - -

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Una mostra con opere del Victoria and Albert riscopre il talento “spontaneo” dell’autrice vittoriana che cominciò a lavorare a 48 anni: empatia umana e verità, con un senso religioso Parigi Il 1863 è l’anno in cui Julia Margaret Cameron riceve in regalo dalla figlia Julia un apparecchio fotografico: ha 48 anni. Julia Margaret, figlia di James Pattle, ufficiale della British East India Company, era nata l’11 giugno 1815 a Calcutta. La madre, Adeline de l’Etang, figlia di aristocratici francesi, la fece crescere in Francia fino al 1838, quando la ragazza si recò in India dove sposò, a Ceylon, Charles Hay Cameron. Nel 1948 si stabilì a Londra e una dozzina d’anni dopo comprò una proprietà sull’Isola di Wight, poco lontano dall’abitazione di Alfred Tennyson, poeta ufficiale della corte d’Inghilterra, battezzandola Dimbola Lodge, dove oggi c’è la casa-museo con le opere della fotografa vittoriana. Le sue immagini hanno molto cambiato la nuova arte, all’epoca nuovissima per così dire, e il segno che quelle foto erano a modo loro rivoluzionarie fu, fin dall’inizio, l’accoglienza critica di molti esperti e critici dell’epoca (ma anche di scrittori come Charles Dickens, che la vedevano forse in difetto di realismo). J.M. Cameron aveva un carattere molto forte e le reazioni avverse non la fecero desistere, anzi. Il Jeu de Paume a Parigi, in collaborazione col Victoria and Albert Museum, dedica alla fotografa una mostra intitolata Caturer la Beauté (catalogo edito da Silvana editoriale; fino al 28 gennaio) che fa capire con che “testardaggine” perseguiva la sua vocazione a rappresentare la vita esulando dalle sottigliezze tecniche che invece interessavano la critica più fedele al verbo della precisione. Si deve tener conto che Julia Margaret Cameron non aveva realizzato nessuna fotografia fin quando la figlia maggiore, nel 1863, non le regalò una macchina fotografica, con l’intenzione di distrarla dalla noia che l’attanagliava in solitudine, dopo la partenza del marito, che gestiva a Ceylon e dintorni varie piantagioni, e per la lontananza dei figli. Nel 1864, la primogenita che le aveva fatto dono di quell’apparecchio, morì improvvisamente. In quell’anno, la fotografa firma – come dirà – «la mia prima riuscita»: è l’immagine di una bambina, una certa Annie Philpot, figlia di un vicino di casa, e la Cameron, in uno stato di eccitazione per il risultato scrive: «Fui trasportata dalla gioia. Correvo in tutte le direzioni nella casa alla ricerca di doni per la bambina. Avevo la sensazione che lei avesse interamente creato l’immagine. La sviluppai, la trattai, la fissai e incorniciai, e la presentai a suo padre il giorno stesso». Madre di sei figli, mentre realizzava quella fotografia la Cameron aveva già avuto la notizia della morte di Julia? E nel caso, quel lutto ebbe una grande influenza sul modo con cui rappresentò la realtà? C’è da starne certi, anche se nel catalogo questa situazione non è molto trattata. Una sorta di leggera follia aleggia su tutti i ritratti che Cameron esegui, tanto che fossero personaggi celebri oppure i suoi familiari che prestavano le loro fattezze per immagini che Cameron costruiva ispirandosi magari a episodi e figure bibliche, oppure cercando di rappresentare vere e proprie scene teatrali (da Shakespeare a Milton), ma anche prendendo spunto dalla poesia, Tennyson appunto, o dalla pittura, quella rinascimentale italiana ma poi anche i preraffaelliti, che tornano nelle pose, nelle pettinature o nelle mise con cui rappresenta i suoi soggetti (per le donne, quasi sempre vesti bianche e leggere). Le ragazze poco più che adolescenti, ma talvolta anche gli uomini maturi, hanno parvenze di larve, come fossero apparizioni che mettono in contatto i due regni: la vita e la morte. Il 1864 è anche l’anno in cui Dante Gabriel Rossetti dipinge la poetessa e pittrice Elizabeth Siddal nei panni di Beatrice; impostazione analoga, ma più moderna, nella fotografia del 1873 dove Mary Hiller, cameriera della stessa Cameron e sua modella preferita, si presenta come se fosse presa dentro uno spazio sospeso alle vibrazioni della luce, che raggiungono il massimo di modulazione, fino alla sfocatura, nei lunghi capelli della ranella gazza che le scendono dietro la spalla destra. Si è spesso parlato di effetto flou, ma la fotografa dichiarò di non cercarlo, bensì di vederlo emergere per caso dalle sue sperimentazioni il cui fine non era la precisione ma l’espressione della vita. Sulla perfezione tecnica da cui dipende appunto l’esattezza e la precisione fotografica si discusse molto all’epoca e anche oggi è uno dei temi principali non soltanto della critica che si occupa di Cameron, ma in generale della fotografia, tanto che nel catalogo Quentin Bajac ne associa gli esiti a quella che chiama l’art brut del fotografo ceco Miroslav Tichy (morto novantenne nel 2011), dove la sfocatura, la macchia luminosa, il grattage delle superfici emulsionate, il sovrapporsi di segni che nulla hanno a che fare con le figure rappresentate, fanno sì che l’immagine smette di essere una foto della realtà e diventa una proiezione dell’immaginazione; oppure il legame che il critico instaura con l’underground di Patty Smith, ma anche con le fotografie di Nan Goldin, la quale ha affermato che non c’è alcuna distinzione tra la sua opera e la sua vita. Ecco, questi riferimenti, che esulano dai rapporti stilistici o dalle tecniche artistiche, calzano assai bene a Cameron e in un certo senso ne fanno un’anticipatrice della trasgressione dal dogma fotografico. Lo scopo che Julia Margaret Cameron si prefigge, consiste in «meno precisione, più verità». Anzi: Bajac scrive dell’«imprecisione come condizione sine qua non dell’arte fotografica». Forse molti avranno un soprassalto d’incredulità perché sembra una dichiarazione di dilettantismo, ma come osservò nel 1868 la “Pall Mall Gazette”, l’approccio della fotografa «dà dei risultati che sono belli e imprecisi e che parlano all’immaginazione, poiché essi sono animati da uno spirito della vita, dell’occasione, dell’eleganza e del potere». E Kenneth Clark nel 1955 aveva notato che la Cameron «inventò, nel ritratto fotografico, il “primo piano”». In mostra possiamo vedere due fotografie che si ispirano alla parabola delle Vergini sagge e delle Vergini stolte. Le pose, e anche i volti, sono praticamente identici. L’arte ha spesso ritratto questa parabola, qualche volta le Vergini sagge sono insieme a Gesù (lo Sposo) mentre le stolte sono avvicinate dal demonio; oppure, le prime hanno volti che gioiscono, mentre le altre piangono. Nelle due fotografie non si riuscirebbe a stabilire una differenza psicologica e anche il riferimento al divino o meno rimane piuttosto impercettibile. C’è però quel vago vapore luministico che fa levitare in entrambe le immagini il flou della follia, anzi, si potrebbe parlare di isteria e scomodare la psichiatria dell’Ottocento, con le ricerche di Charcot, cui corrisponde una fotografia clinica con curiose somiglianze al modo di vedere le donne di Cameron. Un tema, questo, che non è estraneo nemmeno alle numerose Madonne che la fotografa, cristiana convinta, ha rappresentato: per esempio, la Madonna della Pace (1864) che, come ricorda la scheda nel catalogo, tenendo in braccio un bambino addormentato suggerisce anche il tema della Pietà: vita e morte insieme, contrappunto simbolico molto presente teologia e nelle opere d’arte del passato dove il bambino in fasce può suggerire la sepoltura di Cristo. Il volto della Madonna, ancora una volta quello di Mary Hiller, dice tutto tranne che un auspicio della pace, evoca infatti lo sguardo vuoto della rassegnazione, se non della disperazione. A forza di interpretare la Vergine Maria anche la cameriera diventerà ben presto “Mary Madone”. Ma la scheda sottolinea un aspetto più morboso della tradizione vittoriana, quella di fotografare bambini morti come se fossero addormentati. Sulla questione dei bambini c’è anche quella che nelle fotografie di Lewis Carroll avverte un sentore di pedofilia. Argomenti, entrambi, che stanno in relazione proprio al gusto vittoriano (dove l’infanzia è stata spesso anche un “capro espiatorio” di tendenze sociali poco umane, messe a nudo da Dickens). Così la scheda conclude in modo salomonico con una osservazione pratica: un bambino addormentato era più facile da fotografare, considerando i tempi lunghi di posa. Ma in varie foto esposte a Parigi i bambini hanno tratti angelicati (come cherubini, con ali di carta), dagli sguardi sempre diretti e qualche volta, nei più grandi, forse provocatori; sebbene ispirati alla pittura antica, i loro volti creano quello rimando ambiguo che viene dal modo con cui gli adulti dell’epoca percepivano una “finzione” carica anche di retropensieri, magari ironici come quando, prendendo spunto da un testo letterario, il manto della Vergine sotto cui si riparano due bambini, nella foto si traduce in un ombrellino. Uno degli apporti decisivi della Cameron alla fotografia, come abbiamo detto, è nella negligenza che respinge la maniera esatta di certa fotografia dove manca quell’empatia umana che nasce dal cuore. Gli abiti stropicciati, i capelli fluenti e non troppo pettinati, le barbe incolte, i volti rugosi di certi personaggi, il grattage o il flou e la sfocatura dominano l’effetto generale. Siamo in presenza di un’autrice dove la sgrammaticatura diventa accesso alla verità oltre le stesse costruzioni formali: chiamatela, se vi pare, bellezza.

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