martedì 15 settembre 2015
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​Ricorrono trent’anni dalla scomparsa di Italo Calvino (Santiago de las Vegas, Cuba, 5 ottobre 1923 – Siena, 19 settembre 1985) e il tempo ha confermato che la sua opera non è una «collezione di sabbia» ma piuttosto «un diamante splendido e durissimo» (Le città invisibili) che ha rinnovato, in Italia, il rapporto tra prosa narrativa e pensiero etico e filosofico.Fin dal suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), ispirato alla Resistenza, e dai racconti di Ultimo viene il corvo (1949), la tendenza al realismo e quella al fantastico si manifestano in lui complementari, in quel territorio – che è misura dell’intelligenza e del gioco – tra verisimile e probabile. Nell’alternarsi così del registro realistico (la raccolta complessiva I racconti, 1958, o il romanzo breve La giornata di uno scrutatore, 1963) e di quello fantastico (Il visconte dimezzato, 1952; Il barone rampante, 1957; Il cavaliere inesistente, 1959, poi raccolti nel volume I nostri antenati, 1960), si deve riconoscere la stessa lucida vocazione, capace di collocare l’invenzione letteraria come scena ove il meditare filosofico e l’impegno etico trovano le loro più "giuste" parabole.Basti evocare una lettera a Valentino Gerratana, del 15 ottobre 1950: «Credi sempre che la guarigione sia nel ragionamento, nell’aver chiarito teoricamente il problema, mentre invece la coscienza della via di soluzione d’un problema morale non si può avere che contemporaneamente alla sua soluzione pratica effettiva».  I «mondi possibili» – dei quali Calvino affina la conoscenza a contatto con l’Oulipo e con Raymond Queneau (del quale traduce I fiori blu, 1967) e dei quali sono variazioni e inveramenti Le cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967) – evidenziano in controluce le aporie, le contraddizioni, il grottesco di quelli "reali". La formula che egli adoprerà nei suoi Saggi, per coniugare le due prospettive, sarà quella della «Città pensata: la misura degli spazi» (1982). I suoi interventi critici sono tra i più acuti del secondo Novecento: Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società,1980, Collezione di sabbia, 1984, e – postumi – Perché leggere i classici, 1991.
I due sintagmi: la «città pensata» e la «misura degli spazi» indicano perfettamente lo sviluppo della poetica di Calvino, da Le città invisibili (1972) e da Il castello dei destini incrociati (1973), sino a Palomar (1983). Il visibile e il rappresentato, la «redenzione degli oggetti» e insieme la forma dei «modelli» si affrontano e si combinano nei romanzi filosofici di Calvino, pellegrino dell’umano, «viandante nella mappa», 1980: «La morale che emerge dalla storia della cartografia è sempre di riduzione delle ambizioni umane. [...] È come se il rappresentare il mondo su una superficie limitata lo retrocedesse automaticamente a microcosmo rimandando all’idea di un mondo più grande che lo contiene. Per questo la carta si situa spesso al confine tra due geografie, quella della parte e quella del tutto, quella della terra e quella del cielo, cielo che può essere firmamento astronomico o regno di Dio».A proposito di quest’ultimo non sarà inutile ricordare che il più bel romanzo di "redenzione" nel male di esistere – o di «remède dans le mal», come direbbe Jean Starobinski – è La giornata di uno scrutatore, 1963, meditazione e apologo intorno alla sofferenza umana raccolta nella cittadella del Cottolengo di Torino; di fronte al limite di «ciò che ci manca» è la purezza dell’ideologia (della quale già dubita Calvino): «Vorrà dire che il comunismo ridarà le gambe agli zoppi, la vista ai ciechi? Cioè lo zoppo avrà a disposizione tante e tante gambe per correre che non s’accorgerà se gliene manca una delle sue? Cioè il cieco avrà tante e tante antenne per conoscere il mondo che si dimenticherà di non avere gli occhi?».Ma questa «giustizia ausiliaria», suppletiva, trova nella riflessione di Calvino le radici della propria insufficienza: «La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile. […] "Chi agisce bene nella storia, – provò a concludere –, anche se il mondo è il ’Cottolengo’, è nel giusto". E aggiunse in fretta: "Certo, essere nel giusto è troppo poco"».Un altro ordine di valori si affaccia ora, contemplando il reciproco aiuto che si danno  due "idioti": «Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo». E quella sarà la conclusione, nell’ultimo sguardo sulla città della sofferenza, sul Cottolengo: «Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. [...] Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo in cui in ogni città c’è la Città».La Città, maiuscola, quella di sant’Agostino, che Calvino aveva meditato. Già appare in una lettera a Giulio Ungarelli del 7 maggio 1975, ove Calvino approva l’ipotesi del suo interlocutore e cioè che sant’Agostino sia l’inventore, per dirla con Eco, del Lector in fabula: «Lei rintraccia la problematica del lettore di Agostino, santa Teresa, san Juan de la Cruz come meditazione filosofica, mentre era stata vista sempre in chiave di religiosità emotiva».
È un primo segnale; ma in un’ulteriore lettera a Primo Levi, da Castiglion della Pescaia, del 10 agosto 1985, a poche settimane dalla morte, Calvino commenta le sue scelte nella traduzione del Chant du Styrène di Queneau, scritto nel 1957 «come lavoro su commissione della Pechiney». Chiosando il verso «Tempo, sospendi il bolo» – parodia di Lamartine, che aveva scritto: «Ô Temps!, suspends ton vol, […]», Calvino nella minuta redige questa singolare confessione, che poi cancellerà: «Ho tradotto, "Tempo ferma la ruota" per ragioni che potrò spiegare in prefazione (la ruota del vasaio come misura del tempo in S. Agostino; la plastica che elimina la ruota per fare i vasi) ma soprattutto perché è egualmente semplice».Il tempo del «vasaio» di sant’Agostino e di Calvino, sia anche il nostro, in quell’immagine cosmica che lega astri e pianeti secoli e ore e istanti al lento gesto del quotidiano: «Perché il tempo non sarebbe piuttosto il moto di tutti i corpi? Qualora si arrestassero gli astri del cielo, e si muovesse la ruota del vasaio, non esisterebbe più il tempo per misurarne i giri e poter dire che hanno durate uguali, oppure, se si svolgono ora più lenti, ora più veloci, che gli uni sono più lunghi, gli altri meno? E ciò dicendo, non parleremmo noi stessi nel tempo? […] O Dio, concedi agli uomini di scorgere in un fatto modesto i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà».Forse nessun grande apologeta o moraliste del XVII secolo ha saputo unire, come Calvino, «i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà»: sapendo che «i soli momenti d’abbandono generoso sono quelli dello staccare da sé, lasciar cadere, spandere» («Le città e il cielo. 2», da Le città invisibili). Largesse e Gelassenheit: tutta la sapienza d’Occidente in una riga.
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