venerdì 30 luglio 2010
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Il calcio che funziona. In campo e fuori. La Germania, un punto di riferimento. Conti a posto, risultati apprezzabili, la spinta dei giovani. E dire che i tedeschi sono abituati da anni a fare le nozze coi fichi secchi. O forse sarà proprio per quello che sono riusciti a trovare la giusta quadratura. Il campionato, innanzitutto. Poche stelle, in Bundesliga. Più bilanci sani che fuoriclasse in campo. Ma non solo i campioni fanno schizzare in alto il termometro dell’appeal. Qualità non eccelsa, seguito da primato. Un paio di stagioni fa, il sorpasso. Poi il perentorio allungo. La Premier League è alle spalle, ben distanziata. A fine stagione, la Bundesliga ha fatto i suoi conti: circa 42mila spettatori a partita. Da noi si grida al miracolo per ogni insignificante incremento (siamo distanziati di circa 15mila presenze a partita, un’enormità), in Germania dovrebbero far festa a oltranza. Contano gli stadi, tra le altre cose. Imbarazzante il paragone con quelli italiani. Gli impianti di ultima generazione (autentici gioielli quelli costruiti per il Mondiale, altro che i soldi sperperati per Italia ’90) prevedono solo posti a sedere che non piacciono a quelli della curva? Nessun problema. Nella competizioni europee, dove vige l’obbligo, solo posti a sedere. In campionato, spazio ai tifosi della curva, quelli che preferiscono stare in piedi. E per di più a prezzi popolari, i più bassi dell’Europa calcistica più avanzata: 20 euro il prezzo medio, 10 quello di curva, poco più di 100 un abbonamento nei settori meno costosi. I tifosi, prima di tutto. Loro sono i padroni, a loro sono dedicate le attenzioni. Spiega Karl-Heinze Rummenigge, un terzo del triumvirato di ex campioni (Hoeness e Beckenbauer, gli altri), che ha fatto grande il Bayern Monaco: «Il calcio tedesco, per certi versi, è unico al mondo: le associazioni sportive sono società di capitale controllate per almeno il 51 per cento dai tifosi. Così se da un lato non è possibile che accada quel che è successo in Inghilterra, coi tanti club scalati da imprenditori stranieri, dall’altro i club non possono che venire incontro alle esigenze della gente, vera proprietaria del calcio».Il resto viene da sé: vietato sperperare quattrini, che invece entrano in cassa in gran quantità proprio per l’impressionante seguito che ha il calcio. Gli sponsor fanno a gare per imprimere il proprio marchio sulle maglie delle squadre tedesche, che ne ricavano 102,9 milioni di euro, la cifra più alta in Europa. Lievitano le entrate diminuiscono le uscite: e tutti i club chiudono i bilanci con utili netti. Solito discorso, per Rummenigge: «I club non possono permettersi gestioni allegre: i bilanci in regola vengono prima di ogni cosa: in tempi di recessione avremmo bisogno di aiuti, ma se non ne abbiamo siamo costretti comunque a far quadrare i conti». Difatti se la Bundesliga è alle spalle della Premier League in fatti di ricavi (1 miliardo e mezzo di sterline per gli inglesi, 900 milioni per i tedeschi), il calcio tedesco primeggia in quanto a utile d’esercizio, di gran lunga il migliore d’Europa. Perché si spende meno anche per altre voci di bilancio. Prima di tutto gli stipendi dei calciatori; altrove incidono per il 62-64 per cento dei ricavi, in Germania solo per il 45 per cento. Senza dimenticare il calciomercato: nessuna corsa ai fuoriclasse strapagati, piuttosto ci si butta su calciatori di medio livello a prezzo di saldo: la scorsa estate sono stati spesi 150 milioni (meno di un terzo rispetto alla Premier League) contro i quasi 200 di un anno prima. E ciò non ha impedito al Bayern Monaco di spingersi fino alla finale di Champions League. Questione di gestione, secondo Rummenigge: «Spendiamo quando possiamo permettercelo, per il resto puntiamo a fare crescere i giovani: in finale con l’Inter c’erano Muller, Badstuber e Contento, gente da poco uscita dalle giovanili». I giovani, una miniera d’oro. In cui ha pescato a piene mani la nazionale (multietnica, oltre che verde), terza al Mondiale sudafricano. Età media di soli 25 anni (più giovani erano solo Ghana e Corea del Nord), travaso continuo dalle giovanili (under 21 e under 17 campioni d’Europa in carica) alla nazionale maggiore. Normale se negli ultimi 10 anni l’età media dei giocatori autoctoni della Bundesliga è scesa da 28,8 a 25,3 anni e se il 27,5 per cento dei calciatori del campionato è composto da under 23 di nazionalità tedesca. Un piccolo grande miracolo. E un esempio da seguire.
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