sabato 18 settembre 2010
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Non al denaro, ma all’amore per il calcio e uno sguardo sempre fisso al cielo. L’esistenza anarchica di Riccardo “cuor di pallone” Zampagna, a quasi 36 anni è ancora tutta dentro a una rovesciata con il suo marchio di fabbrica. Ed è grazie al calcio e allo sprono incessante di papà Ettore, “il mio primo tifoso” se non è finito come lui, operaio alla catena delle Acciaierie di Terni. Ha fatto tutto “a rovescio”, come dicono i ternani doc come lui, di Borgo Rivo. Aveva iniziato da centravanti part-time nei dilettanti, alla Narnese, tappezziere di giorno, allenamenti serali, le partite alla domenica. Stava per mollare tutto a vent’anni, ma poi papà Ettore con i risparmi di una vita gli regalò una Fiat Tipo e con quella potè raggiungere Ponte San Giovanni (alle porte di Perugia), giocare nella Pontevecchio e tentare l’ultima rovesciata per entrare di prepotenza nel grande calcio. Da lì in poi passaggi rapidi in una dozzina di società, compresa la parentesi in “ostaggio”, per un ternano, nel Perugia di Luciano Gaucci, «l’unico errore vero della mia vita di calciatore». La consacrazione al Messina (17 gol in B e 14 in A) e l’ammissione choc in un mondo in cui anche gli ultimi arrivati si atteggiano a fenomeni: «Io non mi sento un giocatore da Serie A…». Eppure Carletto Mazzone, lo vedeva bene in Nazionale e l’allora ct Marcello Lippi durante gli esperimenti in vista di Germania 2006, per qualche ora c’aveva anche pensato a dargli una chance azzurra, poi preferì regalarla al suo “sosia” Cristiano Lucarelli. Quel Lucarelli che adesso è diventato il suo “datore” di lavoro e che lo ha voluto, insieme a Gigi Buffon, nella loro nuova avventura da dirigenti della Carrarese. Dalla Serie B, lasciando l’ambizioso Sassuolo targato Mapei, alla Seconda divisione, sbattendo la porta e gridando con la grinta che da sempre lo distingue: «Il grande calcio, con le sue troppe facce ipocrite non mi piace più…». Nonostante questo j’accuse a tutto il sistema, mezza Serie B in estate voleva ancora ingaggiarlo. «Potevo continuare in B, addirittura finire anche in qualche rosa di Serie A, ma l’esperienza di Sassuolo mi ha fatto troppo male... Mi hanno fatto sentire un numero, quello che mio padre mi ha sempre evitato di diventare, avvertendomi: “Riccà, non andare mai a lavorare alle Acciaierie, perché lì sei un numero, nessuno ti darà mai la pacca sulla spalla e ti dirà bravo se fai un buon pezzo”. Ecco, io ho sempre giocato prima di tutto per ricevere quella pacca sulla spalla e sentirmi dire: bravo Riccardo. I soldi vengono molto dopo tutto questo». E infatti nel mercenariato dell’industria calcio, ha accettato un contratto da 20mila euro, per una sola stagione. «Mi ha convinto la “pacca” di Lucarelli al quale ho detto scherzando: con l’ingaggio della Carrarese faccio fatica a pagare il telepass per tornare a Terni da mia moglie e le mie due bambine… A quel gran conoscitore di calcio che è il ds Nelso Ricci, ho chiesto almeno tre cene offerte a settimana. Ma a parte gli scherzi, con il mio amico e procuratore Luca Urbani, quando ho accettato, abbiamo detto che questo è stato il miglior contratto che ho firmato in carriera». Come, non le mancano i grandi palcoscenici e le telecamere di Sky che ora arrivano fin dentro gli spogliatoi?«Per niente perché il sistema negli ultimi dieci anni è cambiato e in peggio, un’esasperazione continua. C’è un’attenzione alla preparazione fisica che fa spavento, la tecnica invece ormai conta zero e infatti i risultati agli ultimi Mondiali si sono visti… Quanto alle telecamere negli spogliatoi, per fortuna che non faccio più parte di quel teatrino lì, come minimo mi rifugerei in bagno a fumarmi una sigaretta, come ho sempre fatto, per non farmi riprendere».Come sono i giovani calciatori del 2010?«Le ultime generazioni mancano di umiltà, vogliono tutto e subito senza sacrifici, eppure rispetto a noi hanno una gran fortuna. Quando io avevo 18 anni, i calciatori più anziani ti facevano vivere in un clima di “nonnismo”, oggi uno della mia età cerca di insegnare e di mettersi sullo stesso piano di un ragazzo che comincia a muovere i primi passi nel professionismo».Uno Zampagna didattico e comprensivo, eppure non c’è stato un tecnico con il quale non sia arrivato al confronto a muso duro… «È vero, ho litigato con tutti, compreso lo “zio”, Colantuono che è l’allenatore che ho amato di più. Con Delneri all’Atalanta rompemmo il rapporto e me ne andai al Vicenza, ma non ho nessun rancore, anzi lo stimo molto: è l’allenatore italiano che cura meglio la fase difensiva. Confermo che ho sempre discusso animatamente con i tecnici, ma l’ho fatto mettendo sempre al primo posto l’interesse della squadra e mai per un tornaconto personale».Ai giovani compagni della Carrarese racconta anche di qualche “colpo di testa” durante le decine di battaglie vissute nel grande calcio?«In campo loro sanno bene che io mi trasformo, divento una “bestia”, ma non manco mai di rispetto all’avversario e odio le pagliacciate di certa gente che è diventata ricca e famosa, ma che troppo spesso ha perso la testa senza neanche chiedere scusa».Da idolo ancora indiscusso della Curva atalantina come si rapporta con la tessera del tifoso?«Quando entro in campo, la prima cosa che faccio è guardare le due Curve. Vederle sempre più vuote, vuol dire che il nostro calcio sta rischiando di scomparire. Quindi più che la tessera serve il dialogo con le tifoserie perché tornino a riempire quel vuoto. Io ho sempre parlato tanto con gli ultrà e la maggioranza di loro non sono certo dei teppisti, ma persone che oltre a seguire la loro squadra sono particolarmente attive nel sociale».  Però nelle Curve si annida anche la matrice razzista o il caso Balotelli fa eccezione?«Pur non essendo di colore posso assicurare che mi hanno urlato di tutto. Sentirsi dare da gente anziana dello “sporco ebreo” penso che sia una cosa che fa venire i brividi. Molto prima di Balotelli è toccato a Zoro, quella volta di Messina-Inter io ero in campo... Il razzismo purtroppo negli stadi c’è e non si riuscirà a estirparlo facilmente».Del doping invece non si parla più, forse è stato spazzato via dal calcio?«Mai visto, né provato, posso però confessare il mio doping: vino rosso e un bel piatto di ciriole con i funghi sanguinacci, cucinati da mia madre».Lei una volta ha detto che è arrivato in Serie A “per miracolo”, che rapporto ha con la fede?«Quando tre anni fa mio padre è morto ero arrabiatissimo, non potevo accettare che un uomo di 63 anni fosse andato via così, in 25 giorni, per una fine che scientificamente è ancora un mistero. Oggi credo e spero che Dio l’abbia preso con se per la sua bontà, per il suo essere speciale e per tutte le cose belle che ha trasmesso a mia madre e a noi figli».Nel futuro del “ribelle-saggio” Zampagna ci potrebbe essere una panchina da allenatore?«No, io potrei solo allenare i ragazzini e a un patto: niente genitori nei paraggi. La rovina del nostro calcio comincia da quei padri e quelle madri invasati che pensano di aver generato il più grande campione di tutti i tempi, il futuro milionario che renderà ricchi tutti quanti. Non hanno capito niente. I ragazzi devono sentirsi liberi di scoprire il senso vero di questo sport che consiste prima di tutto nel giocare per passione e nel riuscire a star bene insieme agli altri».
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