giovedì 17 marzo 2011
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Quando giocava Carlo Nervo, classe 1971, solcava con la sua corsa “nervosa” («altrimenti mi chiamavo Tranquillo») la fascia destra. Quel numero “7” rossoblù ha arato le corsie del prato del Dall’Ara di Bologna, «per 13 anni» e ha risposto per 6 volte alla chiamata azzurra, nella Nazionale del «giovane» Trapattoni. «Oggi, se ho un attimo di tempo rispondo solo alla convocazione della Nazionale dei sindaci». Quando ha smesso con il professionismo, nel 2007, dalla fascia destra è passato a quella tricolore di sindaco di Solagna (Vicenza), comune di 1.915 anime, in cui ha trascorso l’adolescenza e dove ora si presenta ogni pomeriggio, da Mantova, «2 ore e 40 minuti tra andata e ritorno, dal lunedì al venerdì», dopo una mattinata di lavoro, al mobilificio di famiglia, la Kela.A farla scendere in campo in politica e vincere sono stati i leghisti. Ma non è che anche lei oggi non festeggia il 150° dell’Unità d’Italia?«Tengo a precisare che sono apolitico, quindi festeggio eccome. Faccio il sindaco della gente e non di una parte sola e oggi vado alla manifestazione di Monte Berico. In un momento difficile e di forte frammentazione come questo, solo un pazzo cavalca il particolarismo. Piuttosto, se vogliamo salvarci, stiamo uniti».Ma come, invece di seguire le indicazioni dei verdi della Padania, copia lo slogan sanremese del presidente onorario del Bologna, il “rosso” Gianni Morandi?«Infatti mi hanno già richiamato dalla Lega, un bel cartellino giallo. A qualcuno non va giù che abbia le mie idee. Ma io vengo dallo spogliatoio, quando sono diventato sindaco ho chiamato la minoranza e gli ho parlato chiaro: se collaboriamo si vince. Altrimenti, con le poche risorse a disposizione e i tagli continui dello Stato, la partita è clamorosamente persa in partenza».Risultato parziale di queste due stagioni da primo cittadino?«Sto cercando di realizzare il gol più difficile: provare a governare un piccolo comune come se fosse la proiezione del Paese intero. Ma non è facile, ovunque ci si scontra con la grave carenza di competenze. Bisognerebbe pensare a dei “settori giovanili” della politica, in cui si insegni a diventare dei futuri dirigenti da inserire nel ruolo giusto per risolvere i problemi con i fatti e le leggi ad hoc e non con le chiacchiere».Quanto ha pesato nella sua elezione l’essere stato un calciatore di Serie A?«L’Italia vive di calcio, la mia visibilità è il frutto di quello che ho seminato su un campo di pallone fino a quattro anni fa. Ciò che ho appreso da questo sport, il rispetto delle regole e degli avversari, cerco di metterlo in pratica anche in questa nuova veste».Nel nostro calcio ci si lamenta dei “troppi stranieri” nelle rose. Non le sembra una rivendicazione socialmente diffusa oltre che pericolosa?«Per me non è un problema. A Solagna vivono tanti extracomunitari, a molti ho dato la cittadinanza italiana, sono integrati e lavorano quasi tutti. Mio fratello Alberto vive e lavora in Romania e ha sposato una donna romena. Le ultime vacanze le ho fatte in Senegal. Un altro insegnamento appreso dal calcio è la ricchezza che deriva non dall’ingaggio, ma dal confronto alla pari con le diverse culture. Tanto per intenderci, ho iniziato da ragazzino a Bassano, con Djalma Santos e Cinesinho come allenatori, ho smesso di giocare con Kolivanov e Meghni».Tra i suoi ex compagni chi avrebbe potuto fare il sindaco o comunque entrare in politica?«Vediamo... Forse l’avvocato, Pecchia. Roberto Baggio? No, grande carisma, ma il suo talento rientra solo in un partito di “minoranza”: quello dei campioni rari e irripetibili come Maradona».Chi era la “bestia nera” di Nervo in campo?«Cafu mi innervosiva, per il suo masticare la cicca e quel ridere continuamente mentre correva. Un giorno glie l’ho anche chiesto, eravamo fermi in mezzo al campo e gli faccio: scusa ma tu cos’hai sempre da ridere? Non mi ha mica risposto. Glie lo chiederò ancora, magari un giorno in Brasile dove sogno di andare a vivere per un periodo».Forse Cafu rideva semplicemente perché si divertiva a giocare.«In effetti del calcio posso assicurare che, ieri come oggi, la parte divertente si limita ai giocatori. I dirigenti lasciano molto a desiderare e quando sono sceso a Catanzaro ho visto cose inenarrabili. Era normale che fallisse e mi dispiace tanto per i tifosi, l’altra parte sana e da salvare del calcio».Eppure, spesso sono proprio le tifoserie degli stadi, il terreno più fertile per le mire dei politici.«La strumentalizzazione delle Curve esiste da sempre e il pericolo è che talvolta l’ideologia spicciola di certe frange ultrà vada oltre lo slogan e lo sfottò, ma sconfina nel razzismo più becero».E il Palazzo del calcio cosa fa?«Mi pare poco, anche perché il problema del Palazzo del calcio, così come quello della politica, è che ai posti di comando da decenni si vedono sempre gli stessi. Gente che fa fatica a schiodarsi dalla poltrona e che non ha capito l’importanza del turnover. Il mondo del pallone è lo specchio del Paese, i giovani sono i più penalizzati perché i grandi “vecchi” li tengono in pugno e non gli lasciano spazio».Lei quindi è pronto per un eventuale cambio e un ritorno in panchina?«Sì, ma quella del giardino di casa. Il mio mandato di sindaco termina nel 2014. Il futuro? Non nel calcio. Mi manca l’adrenalina dei 90 minuti, ma ho un’azienda e una famiglia a cui pensare. Una volta il sabato andavo in ritiro e alla domenica giocavo. Adesso in quei due giorni, la gioia più grande è fermarmi, con la coscienza a posto, sapendo di aver dato tutto, proprio come quando andavo in campo».
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