sabato 12 agosto 2017
Secondo anno per la kermesse ospitata nel paesaggio lunare della Lucania. Titolo di punta “Medee” di Matteo Tarasco, drammaturgia che corre da Apollonio Rodio e Ovidio a Christa Wolf
Un momento di “Medee” di Matteo Tarasco, in scena nei Calanchi lucani, presso Pisticci (Matera) (Attilio Bixio)

Un momento di “Medee” di Matteo Tarasco, in scena nei Calanchi lucani, presso Pisticci (Matera) (Attilio Bixio)

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Non c’è nulla. La caparbia natura stenta a esprimere la sua ostinata vitalità; e infatti latita. È desolato e isolato, brullo e ispido e si fa una gran fatica a camminarci sopra perché il suo terreno è scosceso, sconnesso, pieno di crepe, scanalature irregolari e profonde ferite. Non è sabbioso, è argilloso, è creta. Sembra di stare nell’arida Arizona, invece siamo nell’entroterra della Basilicata, a sette chilometri dalla “città bianca”, Pisticci, in un luogo meraviglioso che crea stupefazione, da salvaguardare e rispettare perché è il risultato morfologico di milioni di anni di paziente lavorio di erosione degli agenti atmosferici che lo ha reso così unico, intimo, lunare, vuoto e quindi pieno di suggestione. Sono i Calanchi lucani. Un posto fuori dal mondo che per il secondo anno consecutivo dal primo al 10 agosto ha ospitato, pur nella sua inospitalità, la rassegna del “Teatro dei Calanchi”, un avvenimento controcorrente e contro ogni tendenza modaiola. Nell’epoca della connessione compulsiva, in cui “Kronos”, il “Tempo”, tiranneggia e ci induce a un frenetico e alienante contatto virtuale, a condividere iconici esibizionismi senza mai creare comunione reale, l’esperienza artistica dei Calanchi ci invita invece a riscoprire “Kairòs”, “il tempo di grazia”, durante il quale, come gli antichi greci ci insegna- vano, qualcosa di speciale e illuminante accade. La parola chiave della manifestazione, infatti, è “Unplugged”, dall’inglese “scollegato”; un evento a impatto zero, senza tecnologia, senza elettricità né amplificazione, senza inquinamento luminoso né acustico. Con cosa allora? «Con la creatività, un dono che va scartato e messo al servizio della comunità», non ha dubbi Daniele Onorati, migrante di ritorno, ideatore e direttore artistico del progetto, dal cui sguardo traspare serenità, fermezza e pazienza. Da dieci anni, infatti, con “Circus”, il Centro di Iniziativa e Ricerca per la Cultura e lo Spettacolo, cerca di educare il pubblico all’arte, per riscoprire e valorizzare le tradizioni e le origini del territorio e «far avanzare l’antico». Un processo di coinvolgimento lungo e meticoloso che si traduce, ad esempio, con il tentativo, al limite dell’utopico, di ribaltare il ruolo dello spettatore da fruitore passivo ad attivo “micro-produttore”. «In realtà – spiega Onorati – chiediamo piccolissime quote per tenere in vita questo appuntamento che non gode di alcun sostegno economico istituzionale. Lavoriamo su un terreno fragile, friabile, instabile, non solo in senso metaforico. Ma l’argilla dei Calanchi è anche una terra madre che può rivelarsi fertile e feconda». Ad aver sperimentato rischi e opportunità, precarietà e peculiarità degli ammassi cretosi dei Calanchi lucani è stato di certo Matteo Tarasco, il talentuoso regista veneto grande conoscitore e frequentatore di classici, invitato ad allestire il titolo principale in programma per la rassegna. Ma Tarasco saggiamente ha deciso non di allestire, ma di “calanchizzare” il suo spettacolo: «Il calanco comanda! È la frase con cui martello le attrici. Non lo si può dominare o vincere, bisogna vivere la sconfitta». In effetti, al di là di un’acustica magicamente perfetta che risuona in questa cavea naturale creata nei secoli, muoversi e recitare tra gli anfratti, le insenature, le dure dune di questi dorsi millenari è uno sforzo che mette a dura prova la resistenza non solo interpretativa ma persino umana. Ma se il calanco vince, vincente è anche la sensibilità e l’umiltà del regista: «Ho scelto di non superare il problema ma di godere del problema – ammette Matteo Tarasco – di essere ricco nella limitazione e di liberarmi di orpelli e bagagli». Pertanto niente luci artificiali, solo torce e fuochi naturali, nessun impianto sonoro, solo canti corali e suoni ancestrali provenienti dall’oodoo, uno strumento antichissimo, originario dell’Africa occidentale ma simbolo musicale di questo territorio, un idiofono e vibrafono realizzato infatti con l’argilla dei calanchi. Tutto al servizio di uno spettacolo atavico quanto la sua naturale scenografia: Medee. Non una bensì sette Medee quante sono le intrepide attrici, selezionate su più di 240 candidate, chiamate a dare voce alle molteplici anime della barbara di Corinto innamorata di Giasone che per lui tradisce la famiglia, dona il vello d’oro e se stessa per poi venire ripudiata, umiliata, esiliata e costretta a perpetrare la tremenda vendetta che l’ha resa icona di madre assassina dei suoi figli. Ma quella di Tarasco ai Calanchi non è la tragedia greca euripidea, è una drammaturgia sapiente e trasversale, da Apollonio Rodio a Heiner Müller, da Ovidio a Christa Wolf. E il regista si dimostra abile non solo a tesorizzare le insidie del luogo ma anche a individuare e isolare tra le pluralità di stili e temi un filo conduttore che dona alle sue Medee coerenza e forza espressiva: la condizione di straniera. La metallina dorata isotermica, ormai simbolo dell’accoglienza del migrante stremato, ammanta tutte le sette interpreti conferendo loro regalità e disperazione. E così, regine reiette, al calar del sole si calano cantando le “Medee” lungo i Calanchi all’inizio dello spettacolo esprimendo appieno l’idea di un teatro che si incarna ed evocando l’immagine di un deserto che risplende e rifiorisce.


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