venerdì 19 febbraio 2021
Lo scrittore siciliano immagina il percorso di crescita e di presa di coscienza del proprio destino, con delicatezza e lasciando a Maria il compito di costituire la prospettiva del sacro
Francesco Cozza, “Sacra Famiglia al lavoro”. Venafro, Museo nazionale del Molise

Francesco Cozza, “Sacra Famiglia al lavoro”. Venafro, Museo nazionale del Molise - WikiCommons

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Innumerevoli sono i romanzi che hanno “riletto” la figura di Gesù, ognuno con una prospettiva diversa, forse per chiarire a sé la figura di uomo che rivive ogni giorno la propria storia nell’esistenza degli uomini stessi. Ora si aggiunge anche quella di uno scrittore che meriterebbe più attenzione in Italia, Giosuè Calaciura, finalista nel 2002, con il secondo romanzo Sgobbo, al Premio Campiello, poi in Italia un po’ sottovalutato per il valore che la sua opera ha assunto nel tempo, ma assai apprezzato in Francia, dove l’anno scorso con Borgo Vecchio (2017) ha vinto il Prix Mèditerranèe per il miglior romanzo straniero, tradotto Oltralpe. E la considerazione che la critica francese ha nei suoi confronti può essere riassunta dal giudizio di uno scrittore del calibro di Jérôme Ferrari che scrive: «Di fronte a Calaciura proviamo lo stesso stupore che ci assale quando leggiamo Thomas Bernhard».

In Io sono Gesù (Sellerio, pagine 284, euro 16,00) lo scrittore siciliano, classe 1960, affronta la figura di Gesù in un’ottica strettamente umana e opera una reinvenzione rispetto al tempo che i Vangeli non ci raccontano, quelli della sua formazione, cercando di colmare quel silenzio di parole e di fatti, con una reinvenzione che gli permette di far parlare Gesù in prima persona, di raccontare attraverso un romanzo pieno di fatti, a suo modo anche avventuroso, il dissidio di una crescita, dove il protagonista si pone domande sulle circostanze del suo destino, che il lettore già conosce, ma sul quale Calaciura non interviene, interrompendo il racconto proprio là dove cominciano gli ultimi anni cruciali della sua vita, dove il mistero della sua venuta viene rivelato nella sua forma sacra e divina. Lascia però sospeso nel suo racconto il senso del “Mistero”, soprattutto attraverso la figura della Madre, una Maria perfetta e straordinaria che guarda muta il figlio, conosce il suo destino che le è stato preannunciato dall’Angelo, una donna che giustamente Calaciura relega al ruolo ieratico di spettatrice attonita e interrogante, dolente quando le scelte del ragazzo sembrano indicare una prospettiva diversa rispetto a quella che l’Annunciazione le aveva rivelato.

Il Gesù di Calaciura si interroga sulla scomparsa del padre Giuseppe, in un’ottica dell’abbandono, che quasi prefigura il suo destino sul Calvario, tanto che nel racconto spesso risuona la domanda: «Perché mi hai abbandonato? », che sono le parole “umane” che pronuncerà, agonizzante sulla Croce. Così la crescita, fino a diventare uomo, del Gesù di Calaciura è segnata da questa “ferita”, decisamente umana, ma anche fortemente contemporanea dell’abbandono in una storia che mette in scena un ragazzo generoso che aveva lavorato come falegname e poi come musicante, un suonatore di flauto, un ragazzo che cova nostalgia per la madre abbandonata e dopo le sue numerose fughe in cerca del padre, ritorna sempre da lei, con il cuore spezzato per una sorta di amore ancestrale, che sente tradito e infine ancora un ragazzo derubato, picchiato, abbandonato, che deve fare i conti con le dicerie della gente, riguardo alla sua nascita, con la violenza del suo tempo e con i soprusi del potere, che cova una sorta di rabbia, che nel tempo riesce a contenere, anche se quella diventa la sua forza, la possibilità di affrontare un tempo così incerto, le situazioni estreme in cui si trova coinvolto.

Il suo Gesù, che non ha ancora coscienza del suo destino divino, prova anche le prime pulsioni affettive e Calaciura ha grande rispetto nel raccontare questo aspetto, giustificato, come si scoprirà nel progredire del racconto, da un bisogno di essere accettato, disegnandolo non in una forma scandalistica, ma inserendolo nella prospettiva umana del percorso di crescita che ricostruisce in questo romanzo, lasciando che sia Maria, la madre, ferita da questa prospettiva “umana” e legata alle convenzioni della società, a ricostituire la prospettiva del “sacro”, con la sua delusione, con il suo smarrimento rispetto agli accadimenti che potrebbero confutare solo ciò che lei sa, perché fin dall’inizio è depositaria di una rivelazione, che non dovrà essere lei a rivelare al figlio.

Un romanzo questo di Calaciura il cui titolo può suggerire un duplice significato: quel “io sono Gesù” può essere letto in una prospettiva letterale, ma suggerisce anche una interposizione che richiama ad una rilettura in chiave contemporanea che potrebbe essere definita come “io sono quel Gesù” che tutti i giorni si incarna e patisce gli smarrimenti, i peccati, le delusioni, le omissioni, le incredulità e gli sconforti di ogni uomo. In pratica la prospettiva di un Gesù che si reincarna in ogni tempo e in ogni uomo e ne rivive la sofferenza e l’affanno, lasciando che la prospettiva della salvezza venga annunciata e detta dal Vangelo, come suggerisce il finale, in cui Giuda irrompe a Nazareth e porta un messaggio del cugino Giovanni, che già sta preparando lungo le strade della Palestina, la via di un nuovo Credo che Gesù percorrerà. È il punto di svolta: Giovanni, il profeta che grida nel deserto, ha bisogno di lui. Calaciura rende credibile tutto il racconto attraverso una prosa densa e visionaria, arsa nei paesaggi mediterranei che sottolineano il travaglio di questa crescita, raccontata tra il tono di un “vangelo apocrifo” in forma autobiografica e suggestioni fiabesche (il carrozzone del circo del violento Barabba) e si accosta alla felice tradizione di un grande scrittore siciliano purtroppo dimenticato, assai apprezzato anche da Calvino: Giuseppe Bonaviri.

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