sabato 15 ottobre 2022
Con “Quanto oro c’è in queste colline” la scrittrice di origini cinesi. finalista al XII Premio Lattes Grinzane, affronta la Frontiera dal punto di vista degli immigrati: «Una antiepopea mai scritta»
La scrittrice C Pam Zhang

La scrittrice C Pam Zhang - Gioia Zloczower/Premio Lattes Grinzane

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Nata a Pechino, C Pam Zhang ha vissuto in tredici città di quattro nazioni diverse, ed è ancora in cerca di una casa. Al momento abita a San Francisco. Quanto oro c’è in queste colline (66thand2nd, pagine 346, euro 18,00; traduzione di Martina Testa) è il suo primo romanzo e dopo essere arrivato finalista ai Lambda Literary Awards e nominato per il Booker Prize, è anche uno dei cinque finalisti del XII Premio Lattes Grinzane 2022.

«Come sempre - spiega la Giuria Tecnica - i soli criteri che abbiamo adottato nella scelta dei romanzi finalisti sono stati la qualità letteraria delle opere e la loro capacità di parlare ai giovani che dovranno giudicarle, raccontando storie, idee, realtà umane poco note o del tutto sconosciute: ma a posteriori è quasi sempre possibile rinvenire un filo. E quest’anno il filo sembra rappresentato dall’esperienza traumatica della perdita e dalla volontà, ostinata, di ritrovare e ritrovarsi».

Quanto oro c’è in queste colline è in effetti la storia di due ragazzini cinesi di undici e dodici anni, Sam e Lucy, che perdono il padre durante il viaggio verso il West e la frontiera, in un’America spogliata non soltanto del suo oro, ma anche dei suoi fiumi, dei bisonti, degli indiani, e del suo verde e della sua vitalità. Abbiamo chiesto all’autrice se in questo libro ha cercato di sfidare il mito del sogno americano e la sua risposta è stata un netto «sì». Ed è effettivamente così, perché nel suo romanzo, come ha spiegato la giuria tecnica nella motivazione del premio, «rivivono tutti gli elementi del genere western: il paesaggio assolato e arido del grande Ovest americano, la febbre dell’oro che fa sorgere villaggi dal nulla, il mito di una ricchezza a portata di mano grazie a un pizzico di astuzia».

Nel suo libro ci sono le storie della persecuzione dei nativi, della colonizzazione del West e dello sfruttamento della terra da parte di coloni disperati e opportunisti. Come ha scelto di raccontare questa storia?

«Non ho scelto di raccontare questa storia, è stata lei a scegliere me. Una mattina - mi ero appena trasferita fuori dagli Stati Uniti - mi sono svegliata con le immagini iniziali del romanzo in testa. A volte dico che mi sento perseguitata dalla bellezza e dalla storia violenta della California, dal mito tossico e pervasivo del Sogno Americano che ha schiacciato le speranze di tanti immigrati. Credo che questo fosse il libro che dovevo scrivere per primo, per esorcizzare questi sentimenti di disagio che durano in me da sempre».

Il suo romanzo reimmagina il western classico con una nuova attenzione alle questioni di genere e all’immigrazione. Quale messaggio voleva trasmettere?

«Adoro i western classici, come Colomba solitaria, e le opere di John Steinbeck. Ma più leggevo, più trovavo che si ripetevano gli stessi vecchi tropi, e più capivo che in quel paesaggio c’erano anche tanti altri: immigrati, persone di colore, indigeni. Le loro storie sono altrettanto vivide e interessanti, se non di più, perché non sono state raccontate altre volte prima».

L’opera è sia romanzo di formazione sia avventura leggendaria, capace di affrontare e intrecciare temi come il razzismo e l’immigrazione, il dolore della perdita e la differenza di genere.

«Questo è il tipo di esperienza che cerco come lettore. Credo che quello che volevo trasmettere, più di ogni altra cosa, fosse l’eccitazione che si prova leggendo qualcosa di nuovo, l’avventura di avere gli occhi aperti su un mondo visto raramente e un nuovo modo di essere».

Perché ha scelto di intitolare i capitoli con nomi di elementi come Sale, Oro, Prugna, Sangue, Carne, Fango?

«I titoli dei capitoli erano in origine dei segnaposto: un esercizio di scrittura per me stessa, in modo che ogni capitolo risultasse più nitido e focalizzato su un’immagine o un tono di fondo. Intendevo eliminarli dopo che avevano raggiunto il loro scopo nel mio processo di editing. Ma quando ho continuato a usare i titoli e ho visto che si ripetevano come potenti temi ricorrenti in ogni fase della vita dei miei personaggi, queste parole sono diventate indispensabili».

Cosa rende un pezzo di terra una casa? Che cosa è necessario? Quanto sono importanti il radicamento e la storia per sentirsi a casa?

«La casa è un luogo di benessere e accettazione, dove una persona non si sente né troppo vista né invisibile, dove si sente vista esattamente per quello che è. Sempre più spesso sono arrivata a definire la casa per me stessa come un luogo emotivo, più che fisico».

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