venerdì 24 maggio 2024
In "La crisi della narrazione" Byung-Chul Han sostiene che l’analisi del tempo presente passa dal recupero del racconto come forma di guarigione dall’effimero, spesso promosso dalla tecnologia
Jean Huber, “Voltaire che narra una favola”, 1786

Jean Huber, “Voltaire che narra una favola”, 1786 - WikiCommons

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Che la si connoti con il disincanto del mondo (Max Weber), la perdita d’aureola (Walter Benjamin) o la fine dei grandi racconti (Jean-François Lyotard), la nostra è certamente l’epoca dello smarrimento. Il secolo ventesimo e quello che stiamo vivendo sono caratterizzati da stupefacenti progressi tecnologici ma sempre più accompagnati da un’incertezza profonda e dalla nostra incapacità di dare un significato agli eventi. Non è solo la paura per i nuovi conflitti, il terrorismo, le epidemie o i disastri ambientali a lasciarci impotenti e sbalorditi, ma il venir meno di quei riferimenti in grado di dare senso all’esistenza collettiva. Ce ne parla l’ultimo libro di Byung-Chul Han, La crisi della narrazione (Einaudi. Pagine 114. Euro 13,00) in cui il filosofo sudcoreano da tempo residente in Germania prosegue la sua analisi del tempo presente. Fra i suoi numerosi volumi, in Italia perlopiù tradotti da Nottetempo, La società della stanchezza, La società della trasparenza e Nello sciame. Anche in questo illuminante saggio Han non effettua alcuna operazione nostalgica, tantomeno delle metafisiche onnicomprensive dell’800 che sono state in qualche maniera propedeutiche ai totalitarismi del ‘900, ma non può fare a meno di scagliarsi contro la società dei selfie e dello storytelling, che a suo dire hanno spodestato il vero significato delle narrazioni. Le quali sono «espressione di una tonalità emotiva del tempo» e hanno «un momento di verità interno », cosa che manca ai modelli narrativi oggi prevalenti, privi di «ogni forza di gravità ». Per l’autore «la religione è un caso esemplare di narrazione con un momento di verità interno. Narrando, essa spazza via la contingenza. La religione cristiana è una metanarrazione che cattura ogni aspetto della vita e le dà un ancoraggio all’essere». Un esempio è dato dal calendario cristiano, che «fa apparire ogni giorno come significativo ». Invece, «nell’epoca post-narrativa il calendario diventa un’agenda piena di senso» e «le feste diventano merci, assumendo la forma di eventi e spettacoli », mentre le festività religiose «sono momenti culminanti e rilevanti all’interno di un racconto». E senza racconto « non si dà alcuna festività, nessuna intensificazione emotiva dell’essere. Di contro, si danno solo il tempo del lavoro e il tempo libero, il tempo della produzione e quello del consumo».
Sulla scia di Benjamin, Han mette nel mirino il processo di mercificazione capitalistica che porta a «comprare, vendere e consumare racconti ed emozioni». Così, il conclamato e abusato storytelling, una delle tante facce del dominio dell’informazione, non realizza altro che racconti come oggetti di consumo: « Raccontare storie coincide con il vendere storie». Il mito e la contemplazione vengono cancellati, e anche il senso di comunità, dato che «lo tsunami dell’informazione frammenta l’attenzione, impedisce l’indugiare contemplativo che è costitutivo tanto del raccontare che del restare all’ascolto». Proprio come scriveva Benjamin: « L’arte del narrare volge al tramonto perché vien meno il lato epico della verità, la saggezza». Han sottolinea un altro aspetto del regime dell’informazione, il fatto che almeno in Occidente agisce non in maniera repressiva ma seduttiva: « Esso si nasconde nell’apparenza della libertà e della comunicazione. Mentre postiamo, condividiamo e mettiamo like, ci sottomettiamo alla cornice di questa forma di dominio». Il mondo del digitale conduce allo smarrimento del senso del tempo: ciò che conta è solo il momento e niente rimane. Ne sono un esempio i citati selfie, fotografie che durano solo un istante e sono destinate a svanire: « In definitiva, essi annunciano la fine dell’essere umano inteso come un essere che porta con sé un destino e una storia».
Ma un uomo senza memoria storica non ha futuro. Spaziando fra Erodoto e Scholem, Ende e Black Mirror, il ragionamento del filosofo si fa spietato e pone sotto accusa l’intelligenza artificiale basata sul calcolo: «Il sapere-per-dati segna il grado zero dello spirito». Per questo occorre recuperare la forma vera e originaria del racconto, che custodisce in sé la forza della guarigione. «Un evento traumatico – spiega Byung-Chul Han – può essere superato integrandolo come parte di un modello narrativo di tipo religioso, che offre conforto o speranza e in questo modo ci aiuta ad attraversare la crisi». Ascolto e contatto, anche fisico, con il prossimo sono possibili risposte per uscire da una condizione di isolamento che provoca depressione e angoscia e per riscoprire «l’alterità dell’Altro». Simile la via d’uscita proposta da Benjamin Labatut nel suo ultimo libretto La pietra della follia (Adelphi, pagine 68, euro 7), in cui lo scrittore cileno divenuto famoso per il volume Quando abbiamo smesso di capire il mondo (2021) si muove fra gli orrori del nostro tempo, un mondo spietato e insensato che sembra farci vivere gli incubi narrati da Lovecraft e Philip Dick. Egli invoca un ritorno alla ragione per governare il caos, un nuovo modo di pensare che sappia far tesoro anche dei nostri incubi e non solo dei prodotti della nostra conoscenza. In poche parole, la volontà di far fronte all’irrazionale che irrompe nelle nostre vite ritrovando un senso comune e la coscienza di essere uomini e donne dotati di libero arbitrio, capaci di scegliere fra il bene e il male. L’uomo non è solo luce ma anche buio, al contrario di quanto sostenevano gli illuministi.

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