martedì 18 gennaio 2011
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Alla categoria degli uomini che hanno il coraggio di chiedere pubblicamente perdono appartiene l’ungherese István Bibó. È il primo intellettuale in Europa che dichiara la corresponsabilità della sua nazione per il genocidio degli ebrei, che portò alla morte di cinquecentomila persone, circa il 70% della popolazione ebraica dell’Ungheria. Comprende immediatamente dopo la guerra che senza un’ammissione di colpa non è possibile una conciliazione con i duecentomila ebrei sopravvissuti. È consapevole che un atto di perdono è necessario non solo nei confronti delle vittime, ma per gli stessi ungheresi. L’Ungheria, se vuole guardare con serenità al suo futuro, è chiamata a un processo di purificazione.«Dobbiamo chiedere perdono – pensa István Bibó – se vogliamo camminare a testa alta e ricostruire il nostro carattere morale». István Bibó sa che non c’è Paese d’Europa dove gli ebrei si sentono traditi come in Ungheria. Sono quelli che con più determinazione hanno cercato l’assimilazione. Hanno infatti partecipato in massa alla rivoluzione del 1848-49 con cui il Paese ha cercato di affrancarsi dalla potenza austriaca. Si offendono quando li chiamano ebrei ungheresi, perché si sentono in primo luogo ungheresi. «Abbiamo la nostra religione – scrivono nel 1896, in occasione del millesimo anniversario della nascita dell’Ungheria – ma non vogliamo considerarci una etnia o una minoranza». Hanno rinunciato ai loro nomi, per assumere dei cognomi ungheresi. Quando è nato tra loro Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, lo hanno considerato un pazzo, perché la maggior parte si sentiva perfettamente a suo agio in Ungheria e non aveva bisogno della «terra promessa». Eppure, nonostante il loro patriottismo, il Paese di István Bibó ha promulgato le leggi razziali, quando ha scelto l’alleanza con la Germania e al momento dell’occupazione tedesca, il 19 marzo 1944, la maggioranza della popolazione è rimasta passiva di fronte alla deportazione degli ebrei. Bibó non si dà pace per tutto questo. È per lui motivo di grande vergogna che il padre di sua moglie, il vescovo più importante della Chiesa calvinista, abbia votato le leggi antiebraiche e manifestato pubblicamente il suo credo antisemita. In questo clima di intolleranza ha perso il suo migliore amico, il giurista Reutzer, sua guida intellettuale negli anni della giovinezza. «Era lui – racconta Bibó – che mi consigliava i libri da leggere». Come tanti ebrei ungheresi l’amico è costretto ad arruolarsi, durante la campagna di Russia, nelle truppe di lavoro forzato che venivano impiegate per la ricerca delle mine: un lavoro suicida che non dava scampo. Bibó, affranto per la scomparsa dell’amico, morto in un’esplosione con il fratello, decide di prendersi cura della loro madre, sopravvissuta a un campo di concentramento. Si rivolge a lei come se fosse suo figlio, nel tentativo di riscattare le colpe morali della famiglia della moglie. Applica lo stesso principio di responsabilità nei confronti del suo Paese, anche se in qualità di magistrato e funzionario del ministero della Giustizia si era adoperato per distribuire centinaia di certificati falsi, al fine di nascondere la loro identità di ebrei ungheresi. Per il suo operato era stato arrestato dalla Gestapo, al momento dell’occupazione dell’Ungheria, e soltanto per la confusione che regnava in quei giorni l’aveva fatta franca.Bibó aveva agito come Guelfo Zamboni, salvando molte persone, ma non era per lui sufficiente per ricominciare una nuova vita con la coscienza tranquilla. Desidera che il suo Paese faccia ammenda e scrive un saggio esemplare per chiedere agli intellettuali e al popolo ungherese di assumersi una responsabilità pubblica. È come Jan Karski: anche se ha fatto tutto il possibile per aiutare gli ebrei, sente su di sé il peso di una colpa che non gli appartiene. Invita perentoriamente gli ungheresi a rimuovere ogni alibi per la propria coscienza e a non scaricare la responsabilità sui tedeschi. Ricorda che mentre lo Stato ungherese collaborava con i nazisti, la società mostrava la sua passività quando i perseguitati bussavano alla porta per chiedere aiuto: gli ebrei incontravano indifferenza, se non ostilità, e in alcuni casi venivano persino consegnati ai carnefici. Denuncia il comportamento ipocrita degli ungheresi «onesti» che, pur continuando a frequentare gli ebrei e a compatirli per i loro guai, non ne comprendevano lo stato di animali braccati e tanto meno l’angoscia di fronte alla crudeltà e alla ferocia dei persecutori; erano questi uomini a spiegare tranquillamente agli ebrei che, essendo patrioti ungheresi e antibolscevichi convinti, continuavano malgrado tutto ad augurarsi la vittoria dei tedeschi.A coloro che si giustificano, sostenendo di non avere mai immaginato il meccanismo dello sterminio dei nazisti e di avere dubitato della veridicità delle informazioni che giungevano dai campi della morte, Bibó risponde con l’osservazione più stringente che mai un intellettuale in Europa sia riuscito a fare con parole così chiare e precise: «Si obbietta che gran parte della società ungherese ignorava ciò che accadeva nei campi di concentramento o, quando ne era informata, la gente rifiutava di crederci perché le notizie che giungevano venivano considerate inverosimili. Che tali informazioni fossero accolte all’inizio con un certo scetticismo è più che naturale. Ma il problema non è sapere se vi abbiamo creduto immediatamente o se ne abbiamo dubitato molto a lungo. Nel momento stesso in cui apparve la possibilità stessa della realtà di simili orrori, ogni uomo dotato di integrità morale avrebbe dovuto fremere di indignazione e reagire passando all’azione. Noi invece abbiamo cominciato a dubitare che ci fossero dei campi di sterminio quando avremmo invece dovuto crederci, dal momento che conoscevamo l’esistenza di un numero di convogli di deportati sufficiente come prova. E se abbiamo rifiutato di credere ai campi di sterminio, non è per la fiducia nella bontà umana, ma per non doverci assumere la nostra responsabilità».Il riconoscimento delle proprie colpe è un percorso indispensabile al fine di una riconciliazione con gli ebrei, tuttavia Bibó sottolinea che il perdono pubblico per una società che vuole ricominciare non deve essere vissuto come un marchio d’infamia da cui non poter più uscire, ma come indice del livello di maturità di una nazione. «Sul lungo periodo, la stima che il mondo potrà provare nei nostri confronti, e che metterà sul piatto della bilancia paragonandoci alle altre nazioni, non dipenderà dalla quantità dei torti che avremo ammesso o negato, ma dalla serietà e dalla determinazione con cui avremo stabilito le nostre responsabilità». Un corteo di ebrei appena rastrellati dai fascisti ungheresi delle Croci Frecciate a Budapest, durante l’ultima guerra A sinistra: l’intellettuale e politico István Bibò (1911-1979) In alto: la stella di Davide contrassegna ancora un cancello del vecchio ghetto di Budapest
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