mercoledì 11 novembre 2015
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 E' una delle poche città al mondo a vantare un memoriale dei Giochi olimpici pur non avendoli mai ospitati. E chissà che Budapest non possa diventare la prima Olimpia post sovietica. Per i promotori sarebbe una rivincita sulla storia. Lungo le rive del Danubio agonismo e politica, patria e sport, vanno da sempre come in parata. Tra i vecchi c’è chi ancora ricorda le partite di pallanuoto contro l’Urss. Quando gli adoni magiari ad ogni bracciata sembravano dover rivendicare la libertà negata. E le piscine che regolarmente si tingevano di rosso, a causa di placcaggi subacquei che sembravano appresi in una palestra del Kgb. Il medesimo orgoglio spinge Budapest a chiedere di poter indossare i cinque cerchi. Sul Lungodanubio già da alcuni anni si affaccia il Memoriale olimpico, per ricordare gli eroi del medagliere nazionale. L’impulso patriottico ha concesso agli anelli incrociati solo tre tinte: rosso, bianco, verde. Quelle del vessillo magiaro. A luglio il consiglio comunale della capitale si è espresso a favore della candidatura con un voto schiacciante: 25 a 1. E non c’è voluto molto a convincere il governo centrale a farsi sotto, invocando per il Paese le aureole olimpiche. Un traguardo che farebbe passare alla storia il discusso Orbán, il piccolo Napoleone ungherese che sogna un posto imperituro nella solenne Piazza degli Eroi. Nonostan-È te i muri contro il passaggio di profughi, però, il Paese è inserito al 22° posto nel Global Peace Index, che tiene conto di decine di parametri come il tasso di omicidi, di importazioni di armi, dei conflitti interni e con l’esterno e le minacce del terrorismo. Insomma, l’Ungheria di Viktor Orbán, quella del no ai migranti, dei cavalli di Frisia e degli slogan antieuropei al sapore di paprika ardente, spera di convincere il Cio di avere le carte in regola per una competizione che si svolga in serenità e sicurezza. Come tutte le vicende ungheresi, c’è sempre un prima e un dopo. Dall’Impero ottomano, che ha lasciato in eredità sapori e aromi introvabili altrove nella Mitteleuropa, oltre a bagni termali che perfino Istanbul si sogna, fino a nazisti e comunisti, l’Ungheria ha sempre vissuto tra tesi e antitesi. Ed anche stavolta i sognatori della prima Olimpiade postsovietica sono passati dall’esserne fieramente oppositori al divenire orgogliosamente promotori. «Budapest può solo guadagnare da una competizione del genere – ha detto il sindaco István Tarlós – perché ospitare le Olimpiadi accelererebbe lo sviluppo della città». Fino a qualche mese prima, proprio il primo cittadino si era opposto alla possibilità che la capitale ospitasse la manifestazione, poi però aveva cambiato idea per via della possibilità di contenere le spese necessarie all’allestimento di una kermesse che mai, dalla caduta del Muro in poi, è stata ospitata in quella che fu l’oltrecortina. Zsolt Borkai, capo del Comitato olimpico locale, scrivendo al Comitato olimpico internazionale ha usato argomenti che potrebbero fare la differenza: «Accogliamo con favore anche il fatto che il Cio si sta orientando a un’organizzazione economica più sostenibile dei Giochi, in modo da rompere il monopolio dei più grandi e ricchi Paesi». Come dire che se bisogna differenziarsi dai discussi Mondiali di calcio a Mosca (2018) e Qatar (2022), la cui preparazione oltre a cifre astronomiche sta costando la testa dei vertici Fifa, i giochi di Budapest potrebbero dimostrare che è possibile pianificare un grande appuntamento sportivo senza annegare nei debiti e nel fango degli scandali. Il macigno che dall’antica fortezza di Buda potrebbe rotolare sui fasti neocapitalisti di Pest, si chiama però Orbán. Viktor Orbán sta infatti incrinando l’immagine della “Parigi dell’Est”, che da città aperta e tollerante sembra adesso la capitale di una nazione dimentica del sostegno ricevuto dopo il naufragio del mito sovietico, per di più compatta nel sostenere la chiusura delle frontiere voluta dal primo ministro. Non proprio una buona pubblicità per chi vorrebbe ospitare la più multietnica delle manifestazioni internazionali. Il passato, alle volte, diventa zavorra. Pesante come un gulasch mal digerito. Nella patria che per prima si ribellò al nazismo e al comunismo, pagando in entrambi i casi uno spropositato tributo di sangue e privazioni, si sta realizzando la sinistra profezia del grande drammaturgo Miklós Hubay, morto ultranovantenne nel 2011. Pochi mesi prima, concesse proprio ad “Avvenire” il suo ultimo e amaro vaticinio. Lui che era stato scacciato dai nazisti e poi dai comunisti, esule a Ginevra e poi a Firenze, guardava ai compatrioti con pessimismo. «Non mi piacciono i nuovi leader politici. Che siano di destra o di sinistra sono tutti stati pasciuti sotto il comunismo. E quando si troveranno davanti a grandi sfide, reagiranno da comunisti». Uno di essi era proprio Viktor Orbán, che fu tra gli ultimi dirigenti della gioventù universitaria comunista, ma tra i primi a picconare un regime oramai agli sgoccioli. Resta forse l’unico politico esteuropeo che non vuole sottomettersi, e perciò è molto amato in patria, all’idea di un blocco postcomunista al servizio degli interessi commerciali della motrice tedesca. Dopo avere accettato il sostegno del partito xenofobo Jobbik, non è certo il futuro dei profughi di guerra a intenerire l’aspirante alter ego di Putin. Un vecchio detto magiaro recita: «Sarebbe meglio ramazzare prima avanti alla propria porta». Per aggiudicarsi le Olimpadi questo sforzo andrebbe fatto, anche per non trasformare in ostilità antioccidentale la proverbiale hunfibù, una parola intraducibile, ma che in magiaro più o meno sta per “tristezza patriottica”. Quella che potrebbe risvegliarsi davanti a un niet del Comitato olimpico
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