domenica 12 agosto 2018
Tornano gli scritti sull’educazione del grande pensatore che negli anni 30 coltivò un progetto pedagogico fondato sulla cultura, la letteratura e la storia
Buber: una nuova alleanza fra tedeschi ed ebrei
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«Viviamo – bisogna ripeterlo – in un’epoca nella quale si realizzano momento dopo momento i grandi sogni e le grandi speranze dell’umanità: ma come caricature! Qual è la causa di questa illusione diffusa e incombente? Io penso che non sia altro che il potere del sentimento fittizio. Questo potere lo chiamo ineducazione dell’uomo di oggi. Contro di essa c’è la vera Bildung, la vera formazione, al passo con i tempi, che porta gli uomini a un legame vissuto con il proprio mondo e che a partire da ciò li fa elevare alla fedeltà, alla messa alla prova, alla responsabilità, alla decisione, alla realizzazione» scrive Martin Buber in Bildung e Weltanschauung del 1935, raccolto nel 1953 con altri interventi pedagogici nei Discorsi sull’educazione, ora riediti da Armando Editore (pagine 108, euro 12). Non è un argomento marginale quello dell’educazione, nel pensiero di Buber. Per lui il cammino dell’uomo gravita proprio intorno alla formazione. Non a caso Francesco Ferrari avverte in La comunità postsociale. Azione e pensiero politico di Martin Buber (Castelvecchi, pagine 142, euro 19,50), che il pensatore ebreo «sostiene l’urgenza di un progetto educativo attraverso la cultura, la letteratura, la storia perché sono gli elementi mediante i quali è possibile “agire attraverso la vita stessa”».

La riflessione pedagogica è tanto indispensabile per la passione sionista del Buber dei primi anni del Novecento come per la riconciliazione tra palestinesi e israeliani in vista dell’edificazione di uno Stato binazionale e per la riapertura del dialogo con la Germania dopo la guerra, in contrasto con l’ipotesi di colpa collettiva agitata da Karl Jaspers. Non a caso l’amico Ernst Simon definì il pensatore ebraico Gosher HaG’sharim, “costruttore di ponti”. Altrimenti non si coglierebbe la ricerca continua di risanare le relazioni spezzate tra le persone, le nazioni e tra uomo e Dio. Progetto che resterebbero rinchiusi nel mondo ideale però se non intervenisse l’educazione. Nato nel 1878 a Vienna, fin dai primi studi Buber crede, a differenza di intellettuali come Gershom Scholem, in una profonda alleanza tra spirito tedesco e spirito ebraico. A testimoniarlo non è solo l’influenza esercita- ta sul suo pensiero dialogico da Wilhelm Dilthey e Georg Simmel ma anche la collana di monografie che pubblica nei primi due lustri del Novecento con testi di Werner Sombart, Ferdinand Tönnies, Fritz Mauthner o Lou Andreas-Salomé. Non gli impedisce però, la coappartenenza tra i due mondi, di partecipare nel 1899 al Terzo congresso sionista di Basilea dal cui progetto prende le distanze nel 1903, criticando la sovrapposizione di Sion e Stato-nazione. Il divorzio con Theodor Herzl non lo induce comunque ad abbandonare il sogno della Jüdische Renaissence, o di avviare con Franz Rosensweig una traduzione della Scrittura in tedesco, o di dare voce alla tradizione chassidim, o ancora di promuovere la nascita della Hebrew University di Gerusalemme fino a diventarvi docente, nel 1938, in fuga dalla Germania.

«L’uomo in quanto creatura – ammonisce Buber – non può creare, solo ricreare o trasformare, ciò che è stato creato. Ma può, e ognuno può, aprire se stesso e gli altri alla creatività: può esortare il creatore a salvare e portare a compimento la creatura fatta a sua immagine». Non solo nella sua passione per l’azione, dunque, ma anche nella dimensione teologica alligna l’attenzione di Buber per l’insegnamento di cui coltiva, fin dal 1934, una visione dialogica e non trasmissiva, centrata sull’incontro tra uomini. Nel rapporto con gli allievi «le forze creative del bambino vanno sviluppate – continua –, e su di esse, così come sulla capacità di essere naturalmente attivi e autonomi, va costruita l’educazione di tutta la persona». Il cardine della pedagogia di Buber mostra come «l’influenza decisiva – precisa il pensatore ebraico – non derivi dal dare libero sfogo all’impulso, ma dalle forze che questo impulso incontra, una volta liberato». Solo l’azione dell’educatore quindi riesce a condurre l’uomo fuori dall’isolamento. Se lasciato a se stesso infatti l’impulso creativo porta all’autoreferenzialità o alla violenza. Se guidato, invece, invece procede verso «i due elementi irrinunciabili per la costruzione di una vera esistenza umana: il coinvolgimento attivo e l’ingresso nella reciprocità». Solo così l’ipertrofia di alcuni elementi dell’uomo, come la libido o la competitività, svaniscono e affiora «la polifonia originaria dell’interiorità umana, all’interno della quale nessuna voce può essere ricondotta ad un’altra e l’unità non può essere scomposta analiticamente, ma solo individuata ascoltando tutti i suoni contemporaneamente». Restituendo unità all’esistenza umana l’educazione favorisce l’affiorare nel bambino di un «grande carattere capace – conclude Martin Buber –, grazie alle sue azioni e ai suoi atteggiamenti di rispondere alle richieste della situazione a partire da una profonda disponibilità e dalla responsabilità di tutta una vita » senza cadere nelle caricature dei grandi sogni e speranze dell’umanità.

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