lunedì 4 dicembre 2023
Per la scrittrice brasiliana «il collasso climatico è stato determinato dal nostro modo di interpretare il mondo. Non è possibile arginarlo con lo stesso pensiero che l’ha generato»
Eliane Brum

Eliane Brum - WikiCommons

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Forse non si definirebbe così. Eppure Eliane Brum è una “giornalista-foresta” perché le sue sono “parole che agiscono” e “partoriscono mondi”. Proprio come la foresta che non è un luogo fisico ma un dialogo tra un’infinità di genti diverse, umane e non umane, in uno scambio costante. Con quest’arma – un linguaggio intessuto di vite e capace di generare vita - combatte la guerra in cui si è auto-catapultata come reporter. Il conflitto più anomalo, lungo e decisivo dell’era contemporanea: quello contro la natura e i suoi popoli. «Quando c’è una guerra, non è possibile scegliere tra il viverla o il non viverla, la guerra c’è. La scelta è tra lottare o attendere che le fiamme raggiungano la poltrona in cui pensiamo che far finta che non esista sia sufficiente a non far esistere la guerra. Lottare a fianco dei popoli che si sono mantenuti natura non ha nulla a che vedere con la compassione e va molto al di là dell’etica: lottiamo per la vita», scrive la maestra del giornalismo narrativo in Amazzonia, viaggio al centro del mondo, pubblicato in Italia da Sellerio (pagine 460, euro 18,00). Nel libro, in bilico tra cronaca, saggio e grande reportage, Eliane Brum racconta la sua scelta di “amazzonizzarsi”, un verbo attivo e riflessivo che richiede un dislocamento dei centri geopolitici ma esige anche una trasformazione nella struttura del pensiero. In questo movimento, esterno ed interno, l’autrice è approdata sulle rive sulle rive dello Xingu, la “casa degli dei”, dove risiede ormai dal 2016.

Sono trascorsi sette anni dal suo arrivo ad Altamira, capitale dello Stato brasiliano del Pará. Come vive la “crisi del settimo anno”?

Non so se si possa attribuire alla crisi del settimo anno, ma ho notato un cambiamento recente. Ho sempre adorato viaggiare. Da qualche tempo, invece, faccio fatica a lasciare Altamira. Non è solo il fatto di dover prendere tre o quattro aerei e l’inquinamento che, ogni volta, si produce. Ho paura di ritrovare un paesaggio mutato al ritorno. O, meglio, di non ritrovare tanto di quel che lascio. L’accelerazione della distruzione è così grande che è impossibile non notarla. Abito a venti minuti dalla città. Prima dell’estate incontravo molto più verde nel percorso. Molto più rumore perché la foresta è un dialogo continuo, c’è silenzio solo quando c’è morte. Tanti alberi sono stati uccisi. E ognuno di essi è un mondo. Una trama di relazioni con migliaia di altri esseri. Non mi dispiace solo più razionalmente. Ne soffro nel profondo. E sento di dovere stare qui a documentare quanto accade.

Perché ha scelto di trasferirsi in Amazzonia?

Ho cominciato a viaggiare in questa parte di Brasile nel 1998. Dal 2004 seguo le conseguenze causate dalla maxi-diga di Belo Monte nella regione dello Xingu. Ho seguito e toccato con mano il collasso climatico e, ad un certo punto, mi sono chiesta: “Come posso assolvere il mio dovere etico in questo tempo di catastrofe? Che cosa posso fare per la generazione presente e quelle future?”. Mi sono risposta che, come giornalista e scrittrice, dovevo andare al fronte per documentare. Documentare dal di dentro. Da uno dei centri in cui la guerra climatica si sta svolgendo ma sotto la forma di massacro data la sproporzione di forze: l’Amazzonia. L’Amazzonia è il centro in questo momento storico, non San Paolo o Washington o Londra. Dobbiamo ribaltare la relazione centro-periferia: il centro è la vita non i mercati e qui c’è la vita. Spostarmi al centro, anche con il corpo, ha implicato un mutamento di prospettiva. È cambiato il mio modo di essere, di guardare, di raccontare in alleanza con i popoli-foresta con cui mi sono schierata.

I dati scientifici sono inequivocabili. Eppure le persone fanno fatica a comprendere la gravità dell’emergenza. Per quale ragione?

È che la maggior parte sono negazioniste. Il negazionismo va molto al di là del rifiuto di accettare la crisi in atto e la responsabilità umana del riscaldamento globale. I negazionisti di questo tipo sono una minoranza. Non includo nella categoria nemmeno Donald Trump o Jair Bolsonaro: questi personaggi utilizzano la negazione per far pagare il conto della catastrofe ai popoli. Il negazionismo più diffuso è di tipo pratico: vuol dire non agire in modo conseguente al dramma in cui siamo immersi. Quando la tua casa brucia, quando la tua vita è minacciata, cosa c’è di più importante che spegnere le fiamme? Il capitalismo predatorio ha distrutto l’istinto di sopravvivenza collettivo. Altrimenti gli esseri umani non smetterebbero di fare pressione sui propri leader e sulla ristretta élite di ultramilionari affinché mettano fine alla distruzione.

Come aiutare le persone a rompere la trappola del negazionismo di fatto?

Ognuno deve fare la sua parte. Come giornalista, insieme a un gruppo di colleghi abbiamo creato “Sumaúma”, una piattaforma di informazione sull’Amazzonia in tre lingue. Oltre ai reportage e alle inchieste, lunghi e approfonditi, facciamo dei podcast e dei contenuti brevi per i social. E stiamo cominciando dei corsi di formazione per donne e uomini dei popoli originari affinché smettano di essere “oggetto” di indagine e diventino protagonisti. Questo aiuterà a mutare la prospettiva e, di conseguenza, ad agire diversamente.

Che cosa intende?

Il collasso climatico è stato determinato dal nostro modo di interpretare il mondo. Non è possibile arginarlo con lo stesso pensiero che l’ha generato. Dobbiamo passare dal linguaggio dell’abisso al linguaggio della vita. I popoli-foresta possono aiutarci perché sanno di essere natura. Per questo le loro parole sono differenti: riflettono un altro modo di pensare la realtà.

Mi fa qualche esempio?

Per loro, una parola come “sussistenza” non ha senso. Non si sussiste – ripetono- si esiste. Qualche settimana fa, durante un incontro, un giornalista ha detto di venire da Rio. Lui intendeva Rio de Janeiro. Ma in portoghese “rio” vuol dire “fiume”. L’hanno, dunque, subito interrotto, domandagli: “Fiume? Quale fiume?” Per i popoli-foresta i fiumi contano più delle città. Nel mezzo di questo processo di trasformazione che mi attraversa, continuo a scrivere. A volte mi sembra di comporre dei messaggi in bottiglia che nessuno raccoglie. Delle lettere che non raggiungeranno mai il destinatario. Ciononostante continuo a farlo. Nella speranza che arrivino a qualche persona rimasta umana.

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