lunedì 10 dicembre 2012
​Il giornalista sportivo pensava che non importa «come» si scrive ma «cosa» si dice, ciò che gli valse l'ostilità degli intellettuali. «La sua scrittura pulsa di religiosità - dice il biografo Andrea Maietti - ma soprattutto di una nostalgia che sta tra Hemingway e Leopardi».
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Verrà il giorno in cui, forse, le rabberciate e vetuste antologie della nostra letteratura, alla voce "B", di Bassani e Buzzati, allargheranno lo spettro su Berto, Bertolucci (Attilio) Bianciardi, Bilenchi e finalmente magari apriranno pagine ariose sulla poetica, ancora inesplorata, di Gianni Brera. Una produzione sterminata, quella del primo vero classico della nostra letteratura sportiva. Brera il «principe della zolla», come amava essere definito: de-scrittore di "abatini" mondiali e di campionissimi come l’amato coscritto (classe 1919) Fausto Coppi, se ne è andato vent’anni fa, il 19 dicembre del ’92. Un banale incidente d’auto (a Codogno), dopo una serata con gli "Amici del Giovedì", trascorsa a parlare di folbèr certo e dei suoi eroi della domenica, ma anche di mille altre diavolerie, compresa la passione vitale per la "liturgia" del vino e delle osterie, condivisa con il fraterno Luisìn Veronelli. E poi ancora l’arte - con l’altro imprescindibile sodale, lo scultore Carlìn Mo - , ma prima veniva il sacro fuoco per la Storia e la Letteratura. Argomenti che assieme a lui, più di ogni altro, ha masticato il suo biografo nominato sul campo dallo stesso Brera, il professor Andrea Maietti da Lodi, per lo scrivente: semplicemente zio Athos. E per comprendere a pieno la portata del Brera – scrittore antologico, occorre sfidare la scighera dicembrina di Milano, navigare l’asfalto che ha ricoperto la poesia dei suoi amati «Redefossi» (gli antichi canali che un tempo sgorgavano dal Naviglio Grande) per arrivare alla duplice foce natia: San Zenone-Pianariva. Terra breriana bagnata, per l’orgoglio del gran Gioànn da ben due fiumi, "padre Po e madre Olona". «Guardo ogni volta commosso le colline pavesi che sono il mio dolce orizzonte di pampini. La terra padana si ondula, come un immenso mare sfrangiato, fino a confondersi con il cielo…», cita a braccio Maietti un passo del romanzo breriano più noto, Il corpo della ragassa. Tutt’altro che un’opera isolata di quello che qui in questo ombelico del suo mondo era riconosciuto come il "Gioanbrerafucarlo".
«Brera ribattezza lo sport, ribattezza le cose alla maniera dei poeti», sottolinea Maietti difendendolo da quella critica di superficie che l’aveva bollato come «il Gadda spiegato al popolo». Etichetta coniata esattamente cinquant’anni fa, era il 1962, da Umberto Eco, al quale Brera pur apprezzando «quel grandissimo intarsiatore di parole toscane riplasmate in lombardo, che è zio Carlo Emilio», di rinfaccio avrebbe risposto al professor Eco dandogli del «futuro botanico di fama mondiale». Ogni riga breriana (andare a scovare e poi rileggersi i tre volumi de L’Arcimatto, curati da Maietti) è una scrittura densa, cromatica, di pancia e sempre muscolare, con particolare rilievo al muscolo più importante: il cuore. Sulla tomba di famiglia dove è sepolto, appena fuori il caseggiato di San Zenone Po, c’è sempre qualcuno che porta un sigaro al Gioàn e questo per Maietti è il posto giusto per delle “confessioni”. «La sua scrittura pulsa di religiosità: i campi, il fiume, la caccia e la pesca, la terra, l’osteria. Ma soprattutto pulsa di nostalgia. E si deve parlare di una nostalgia che sta tra Hemingway e Leopardi, per tacere di Shakespeare o Keats. Proprio il concetto keatsiano di "Negative capability" mi pare il marchio della malinconia breriana: la capacità di reggere il mistero e gli oltraggi del tempo senza cercare una fuga consolatoria, quale che sia». È fuori strada dunque chi è rimasto incatenato al Brera del "Rombo di tuono" (Gigi Riva) e chi non si schioda ancora dalla sua Storia e critica del calcio italiano o dai pur insuperabili reportage dal Tour de France e dal Giro d’Italia. Bisogna venire fin qui nella sua "spoon river" bassaiola per coglierne a pieno l’anima letteraria. E mentre il vecchio di San Zenone scollina in bicicletta dal ponte, il gran Gioànn è come se fosse qui mentre rileggiamo: «La gente sente venire l’inverno e senza volere incupisce. Nei suoi lavori c’è un senso di fretta ansiosa che gli animali scontano a legnate». L’illuminista della rosea gazzettiera e di tutte le miriadi di testate a cui pose la sua preziosa e remunerata firma («Scriveva quintali di piombo. Non era giornalismo, era letteratura», ricordava il conte Alberto Rognoni con cui condivise gli anni del "Guerin Sportivo"), si erge fiero a narratore "verista" di ceppo «padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni». È quel verismo che lo portò ad essere sempre dalla parte dei poveri, commensale, fino all’ultima cena, del popolo, dei cristiani avventori delle osterie, «che non a caso nella Bassa si chiamavano "chiese"», puntualizza zio Athos.
E Brera annota ne La pacciada: «Alla Pellegrina di San Zenone, nella saletta degli intimi, il ritratto di un mio fratello che solo nel convivio ha forse trovato un senso alla vita». La vita che scorre al ritmo dei due fiumi, in un paese di poveri che lo tenne a distanza di sicurezza da Don Lisander Manzoni «perché come Gramsci, i poveri li prende per il bavero». Su "sorella povertà" battagliò anche con il quasi compaesano (pavese di Albuzzano), il fervente "manzoniano" don Cesare Angelini, ripiegando poi sulla difensiva: «Io non mi intendo di pedagogia religiosa, però mi sembra che già facendo sport agonistico i chierici sono veramente avviati ad essere moderni e naturalmente più veri e schietti, dunque più accettabili da tutti, credenti e no». Siamo scesi su un campo non praticato dalla critica baronale che ha evaso completamente la spiritualità di Brera, non cogliendo così la vocazione del narratore che ammoniva: «Per scrivere bisogna avere qualcosa da dire: e non tanto importa il modo quanto le cose che si dicono». Una spada sguainata che gli valse l’ostilità del partito degli intellettuali. Nel corposo ed esaustivo saggio biografico Giôann Brera. Vita e scritti di un Gran Lombardo (opera a quattro mani, del figlio Paolo Brera e il talentuoso "brerologo" Claudio Rinaldi), oltre alla polemica con Eco, emerge quella con Pier Paolo Pasolini che lo accusava di imitare Gianfranco Contini. «Di Contini avrò letto quaranta cartelle di una prefazione a un’antologia di scapigliati piemontesi», rilanciava Brera che trovava conforto nella narrativa del dimenticato Fabio Tombari, nel romanzo storico di Walter Scott e nutriva lo spirito con il grande sogno: «Vorrei scrivere male come il cav. Fedor Dostoevski e dire le cose che lui ha detto (e qui sono meno sicuro in confidenza)». Con Il corpo della ragassa e Addio, bicicletta - biografia romanzata di Eberardo Pavesi - cercò di andare in quella direzione, incoraggiato dall’amico Giovanni Arpino, fratello italiano di narrazione fino al giorno in cui, per colpa del calcio, arrivarono a togliersi il saluto. Nello sport Brera aveva rintracciato radici storiche e sociologiche di altissima civiltà, ma forse è proprio su quel terreno olimpico, in cui aveva fondato una nuova letteratura, che alla fine è affondata anche una zolla copiosa della sua aurea cifra stilistica. Così alle nuove generazioni, nonostante le temerarie ristampe, è quasi preclusa la lettura di romanzi come La ballata del pugile suonato o Il mio vescovo e altre animalesse. Lasciandoci alle spalle San Zenone per riprendere la strada del ritorno, Maietti intona elegiaco: «Troppo severo è il dio di mia madre. Ogni sera ella chiede perdono di aver sofferto per vivere… Nascere non è colpa, né vivere di così poco e laborioso pane….». Questo è Il dio di mia madre di Gianni Brera, grande narratore dei poveri e non solamente l’insuperato tra i nostri giornalisti di sport».
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