venerdì 26 giugno 2015
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Appena finito di sbeffeggiare la morte nel suo ironico e grottesco Dipartita finale, ora diventato anche un libro, Franco Branciaroli si appresta ad affrontare La notte dell’Innominato in un’intensa lettura manzoniana, il 27 giugno a Bergamo, per la rassegna De-Sidera. Poi, il 30 luglio a Radicondoli, un altro “reading”, La vita ha ragione in tutti i casi, dalle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke nell’adattamento di Giulia Calligaro. E in autunno il regista e interprete milanese riproporrà l’Enrico IV di Pirandello. La vecchiaia, il senso dell’esistenza, la pazzia, il tormento della conversione: in questi temi c’è l’essenza del teatro, il meglio che può desiderare un attore. «Infatti io non m’annoio – commenta Branciaroli – ma se non facessi questo mestiere il teatro non lo reggerei proprio...». E perché? «Il cinema e la fotografia lo hanno reso tombale, come è successo con la pittura e l’opera lirica. Per fortuna c’è l’avanspettacolo, la rivista...». Si spieghi meglio, prego... «Oggi i classici della prosa sono come delle tombe sulle quale i registi mettono un mazzo di fiori freschi.... Roba morta, una forma di conoscenza ormai passata. Prenda Shakespeare: è divertente ma lontano. E, come dice il critico letterario Harold Bloom, il maggior conoscitore del Bardo al mondo, ogni volta che lo si rappresenta c’è il rischio della parodia involontaria. È impossibile farlo bene!». Eppure Shakespeare è ancora tra gli autori più proposti. E il pubblico, anche a quello più giovane, applaude... «Ma se uno ascoltasse cosa dice la maggior parte della gente all’uscita della sala... “Mi è piaciuto, non mi è piaciuto” e basta. La colpa è della tecnologia che ha riplasmato l’uomo e frantumato la sua capacità di giudizio, il cervello si è strutturato su altre categorie. Pensi che oggi con un tablet si può fare di tutto, dentro un palmare c’è il mondo intero. Siamo di fronte a un cambiamento antropologico mostruoso, i nativi digitali sono altri esseri rispetto ai giovani delle generazioni precedenti: leggono, guardano, scrivono ma non sono quasi più capaci di ascoltare». Giovanni Testori, uno dei suoi maestri, sosteneva già negli anni ’80 che nella società moderna si è perso il senso della nascita, cioè del dolore e della speranza. È da qui che dobbiamo ripartire? «Sì, ma ciò che non accettiamo oggi è soprattutto la scomparsa, l’idea della morte. Non la vogliamo, è l’angoscia umana più grande. E questo spinge la tecnologia ad allungare la vita sempre di più. Non morire: ecco l’obiettivo da raggiungere. Miliardi di dollari investiti nella scienza medica per trovare la risposta al destino dell’uomo. Tendere all’eternità è qualcosa che abbiamo dentro, il padre e la madre trasmettono la vita sì, ma questa è eterna! Sembra che la vera missione dell’uomo moderno sia quella di non morire. Ma solo il cristianesimo non morirà mai». Non è paradossale che sia la cultura materialista a perseguire l’obiettivo della vita eterna, seppure per via scientifica o tecnologica? «È filosoficamente comico. Il materialismo radicale è diventato idealismo, promuove la scienza al massimo, cioè al livello del sogno: bisogna sconfiggere la morte, un destino a cui nessuno può sfuggire. Si cerca l’Apocalisse... Secondo questa “logica”, la tecnologia coinciderebbe con l’obiettivo del cristianesimo. L’idealista invece si aggrappa alla finitezza e lì cerca lo Spirito, non guarda più all’Assoluto, è come se Cristo fosse venuto miliardi di anni fa diventando sempre più astratto. Insomma, si sono invertiti i giochi». Quindi ci sarebbe un tentativo di ridurre l’uomo a pura materia? Di togliergli la presenza dell’Eterno nell’illusione di liberarlo? «Forse si creerà un uomo bionico e può darsi che in futuro la carne umana si possa riprodurre in laboratorio. Ma conta che viva il mio “io”, la memoria di ciò che sono. Tu puoi sconfiggere la morte ma non eliminare una domanda: perché ci sono io? E la risposta è l’Inchiodato: “chi crede in Lui resuscita e avrà la vita eterna”. E se non torna Bisogna essere pronti a tutto, come dice l’Amleto». Il teatro può aiutare a comprendere la condizione dell’uomo? «Il teatro è parola, narrazione, deve far paura e non informare: il teatro politico (non il cinema) è stato un fallimento. È uno strumento di conoscenza ma significa innanzitutto produrre un fatto artistico». Cosa le ha insegnato l’esperienza con Testori, che ebbe la sua più acuta espressione nella memorabile messa scena diIn exitualla Stazione Centrale di Milano, nel 1988? «Testori era uno che conosceva il Creatore. Non ne ho travati tanti come lui. È stato un grande drammaturgo del XX secolo, viene solo dopo Pirandello. Era emozionante lavorare con lui: molti suoi testi li scrisse pensando a me come attore. Con l’autore Testori e l’attore Branciaroli si stabili una simbiosi rarissima nella storia del teatro».
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