mercoledì 23 aprile 2014
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Si è da poco concluso a Parigi un ciclo di incontri tenuti del professor Rémi Brague, filosofo francese, per la Cattedra di Metafisica Étienne Gilson presso l’Institut Catholique. Brague è considerato uno dei massimi pensatori contemporanei. Docente alla Sorbona di Parigi e all’Università di Monaco di Baviera (dove ricopre la cattedra di Weltanschauung che fu di Romano Guardini), ha ricevuto nel 2012 il premio Ratzinger. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul rapporto fra bene e male oggi e sulla questione dell’umanesimo in pericolo.Professor Brague, all’interno della storia del pensiero, dall’antichità sino ad oggi, il tema del bene è stato lungamente analizzato. Se nel medioevo il bene era considerato un trascendentale, oggi è soggetto a svariate letture. Per quale motivo si è scelto di dedicare attenzione a questo tema? Quale la rilevanza a livello storico?«Mi sembra che in fondo oggi si parli più del male che del bene. È giusto scandalizzarsi del male. Ma è come se il bene vada per conto suo. Boezio ha perfettamente ragione nel rispondere al famoso dilemma di Epicuro (“Se Dio esiste, da dove viene il male?”) ribattendo: “E se non esiste Dio, da dove viene il bene?” (De consolatione philosophiae, I, prosa 4). Perché oggi ci si interessa al Bene? Perché noi abbiamo bisogno di spiegare perché è un bene che ci siano degli uomini sulla terra». Il tema del bene è oggi al centro di molti dibattiti. Vi sono azioni che possono essere fatte in nome di ciò che si ritiene essere il bene altrui, a partire dal proprio bene. Questo talvolta può comportare decisioni legislativi assai discutibili, come nel caso recente del Belgio. Dove l’errore?«Mi chiedo se le persone che promuovono queste leggi si preoccupino ancora veramente del bene comune, e anzi del bene in generale. Le persone più consapevoli lo sanno, e l’ho appreso dalla bocca di un ministro francese: non cerco il bene, ciò che mi interessa è la giustizia. Dopo Saint-Just, altri dicono: la felicità. Altri: l’uguaglianza. E chi parla di libertà intende con questa ciò che si lascia cadere ai propri capricci, anche quelli più irrazionali e suicidari».Come lei ha osservato viviamo in un’epoca del “pensiero debole”. Oggi la società promuove versioni “deboli” del bene, per le quali il linguaggio popolare internazionale ha inventato differenti espressioni molto rivelatrici: cool, fun, OK, eccetera. L’idea del "valore" è, tra le diverse figure del Bene debole, la più forte. Quale linguaggio crede si debba utilizzare? In base a che cosa? Esiste forse ancora una tradizione?«Non dobbiamo rifiutare il “pensiero debole”. Piuttosto dobbiamo chiederci in quali casi esso sia sufficiente, e in quali insufficiente, così come è necessario mentre si guida cambiare la marcia. È pericoloso ricorrere a un pensiero “forte” laddove un pensiero “debole” è sufficiente, per esempio per trovare delle soluzioni ai problemi sociali. Il problema dei valori è che sono necessariamente deboli, poiché essi sono istituiti per un soggetto, il quale è dunque più forte di essi. E siccome essi sono deboli, devono compensare la loro debolezza con la violenza. Dal momento che essi sono incapaci di convincere per il loro peso intrinseco, sono costretti a fare pressione. Se si ha bisogno di ricorrere ai manganelli, ai carri armati, ai gulag, questo è un segno di debolezza. Ricorrere a un Bene forte è al contrario indispensabile quando ne va della legittimità dell’uomo».Nel saggio “Les Ancres dans le ciel” (2011) lei ripercorre le tappe principali della storia del pensiero per infine mostrare la convenienza per l’umanità nella conservazione della specie. Crede che per questo sia necessaria una prospettiva di carattere metafisico?«Sì, certamente. La questione dell’Essere e del Nulla è la questione metafisica per eccellenza. Ora, essa riguarda un aspetto concreto, poiché il problema “essere o non essere” è divenuto collettivo e del tutto pratico. Oggi si dispone di tecniche per porre fine all’avventura umana, brutalmente tramite le armi atomiche, discretamente attraverso l’inquinamento del pianeta, e più semplicemente, pacificamente, con la contraccezione. L’estinzione dell’umanità è oramai una possibilità reale, vale a dire che le sue cause, anche se non agiscono ancora, esistono già».Lei è autore di due recenti saggi: “Le propre de l’homme. Sur une légitimitée menacée”, Flammarion (2013) e “Modérément moderne”, Flammarion (2014). Parafrasando Schopenhauer che apriva il suo saggio sulla morale affermando che «predicare la morale è facile, difficile è fondarla», lei afferma che «predicare l’umanesimo è facile, difficile è fondarlo». Per quale motivo oggi parlare di umanesimo non è facile? Che cosa s’intende oggi con l’espressione “umano”?«La risposta è nella sua ultima domanda. Noi sappiamo molto bene che cosa è l’uomo e che cosa lo rende umano. Si parla con enfasi dei diritti dell’uomo e della dignità umana, ma non si dice perché l’uomo abbia dei diritti e una dignità. Nessuno oggi oserebbe scrivere il De dignitate hominis di Gianozzo Manetti (1453). Al contrario, vorrebbero farci credere che ci distinguiamo a malapena dalle grosse scimmie che come noi hanno una vita sociale, un linguaggio rudimentale, e forse dei sentimenti morali. Se fosse così, perché preferire la specie umana alle altre, che d’altronde essa minaccia…».Lei ha affermato che in fondo oggi parlare di umanesimo significa dire “anti-anti-umanesimo”. Potrebbe spiegare il senso di tale affermazione?«Molti filosofi autoproclamati declamano con convinzione contro i pensatori che vengono qualificati degli anti-umanisti. Poche persone invece spiegano perché esattamente dovrebbero difendere l’uomo. In fondo, molte persone difendono l’umanesimo perché hanno paura delle conseguenze del suo abbandono. Un umanesimo positivo suppone che si creda che l’uomo è voluto da Dio. Altrimenti possiamo arrangiarci tra di noi salvandoci gli uni gli altri. Ma non abbiamo il diritto di perpetuare l’esistenza della nostra specie».In “Modérément moderne” lei si chiede se l’Europa possa sopravvivere alla modernità e chiude il libro con un capitolo intitolato “Ricostruire”. Crede che l’Europa possa farsi carico della trasmissione dell’eredità antica? Che cosa la motiverebbe?«Ho dimenticato la mia sfera di cristallo e non ho alcuna visione chiara del futuro. Mi chiedo se, come motivazione, sia ancora sufficiente il desiderio di sopravvivere. Può essere che il desiderio di trasmettere sia ancora più necessario. Si deve avere ancora qualcosa da trasmettere, sentirsi ereditari e responsabili di un qualcosa più grande che se stessi... Cominciamo dunque con l’avere verso il nostro passato un comportamento intelligentemente critico, senza sputare sui nostri antenati».
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