mercoledì 10 gennaio 2024
L'archeologo algerino, già vicedirettore Unesco, traccia un panorama dei beni minacciati da incuria, guerre e clima. «Non sono strutture isolate, vanno consultati anche gli specialisti dell'ambiente»
Il cantiere di restauro della Grande Moschea di Mosul avvolto nella nebbia

Il cantiere di restauro della Grande Moschea di Mosul avvolto nella nebbia - Ansa

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Fra le spie naturali del cambiamento climatico, si citano spesso i ghiacciai d’alta quota o la banchisa polare. Ma ai quattro angoli del globo, fungono ormai da campanelli d’allarme pure tanti siti patrimoniali a rischio dal valore inestimabile. Talora delle perle, come Venezia, che simbolizzano con il loro fulgore capitoli interi di civiltà umana. Archeologo algerino e alto funzionario internazionale già alla guida dell’Iccrom, l’organizzazione intergovernativa basata a Roma, specializzata nella conservazione e nel restauro dei beni culturali, Mounir Bouchenaki ha alle spalle una lunga carriera, anche come vicedirettore generale per la Cultura all’Unesco. Fra i progetti di cui si è occupato, pure la ricostruzione del Ponte Vecchio di Mostar, il simbolo di convivenza violato dalla guerra in ex Jugoslavia.

Nel nostro mondo inquieto, sottolinea Bouchenaki, non è mai un lusso battersi per questa memoria comune dell’umanità minacciata dal cambiamento climatico e dalla furia dei conflitti. Al contrario, questi sforzi testimoniano un impegno concreto per la pace, al di là di ogni steccato. «La minaccia riguarda sempre più pure il patrimonio immateriale, ovvero le tradizioni orali, le leggende, persino i saperi culinari, per via della fuga d’intere popolazioni che cercano rifugio altrove», osserva l’archeologo, che ha ricevuto nel maggio scorso una laurea honoris causa dall’Università di Palermo. In Italia, è fra l’altro presidente onorario della Borsa mediterranea del turismo archeologico.

Partiamo da Venezia. La sua vulnerabilità continua a interrogare le coscienze mondiali su una problematica ben più generale?

«Già negli anni Sessanta, l’Italia propose il lancio di una campagna internazionale di salvaguardia. La città è un sito molto complesso, anche per i suoi flussi turistici eccezionali. Ricordo che nel 2002, per via dell’acqua alta, indossammo gli stivali per celebrare a Venezia i 30 anni della Convenzione sul Patrimonio mondiale dell’Unesco. Essendomi occupato in quel periodo delle riunioni di coordinamento dei donatori privati internazionali, ho appurato anche così la forza unica di richiamo della città. L’anno scorso, all’opposto, Venezia ha sofferto di periodi di bassa marea prolungati, con i gondolieri costretti al riposo. Volendo evidenziare il lato positivo, queste situazioni critiche fungono come un campanello d’allarme seguito in tutto il mondo, giovando dunque indirettamente alla sensibilizzazione per gli altri siti. Anche l’alluvione di Firenze, nel 1966, con la sua eco eccezionale, contribuì a lanciare il dibattito».

Sull’altra riva adriatica, anche il destino di Dubrovnik, storicamente così legata a Venezia, ha già scosso le coscienze mondiali…

«È divenuta un simbolo di un altro problema, le distruzioni intenzionali durante un conflitto. Correva il dicembre 1991 quando, nella Jugoslavia dell’epoca, sul punto di smembrarsi, giunse questo primo caso di bombardamento intenzionale, da parte delle truppe serbe, di un sito iscritto nella lista mondiale. Mi recai a Dubrovnik per aiutare le autorità municipali a organizzare le prime riparazioni. Poi, trovammo in Provenza una delle rare aziende artigianali che ancora fabbricano tegole tradizionali. Dapprincipio, il colore non era esattamente lo stesso, ma poi è progressivamente mutato verso l’aspetto originario. Fu un momento sconvolgente, perché il sito non aveva un valore strategico militare. L’anno seguente, fu la volta di Vukovar, anch’essa bombardata e dove i serbi prelevarono i reperti del museo locale per trasferirli a Belgrado. Nel novembre 1993, toccò al Ponte Vecchio di Mostar, un ponte pedonale che non poteva servire per il transito di mezzi armati pesanti. Da allora, in questi ultimi 30 anni, gli esempi si sono moltiplicati, come in Siria ed Iraq, con i siti e musei archeologici, o in Afghanistan, con i Buddha di Bamiyan. Per questi ultimi, cercammo invano di batterci per 10 giorni per evitarne la distruzione. Nel caso delle razzie di beni archeologici, come a Baghdad, alla motivazione ideologica si affianca spesso quella bassamente materiale di costituirsi un bottino di guerra per finanziarsi. In questo campo, con la sua competenza, fornisce un grande aiuto il Comando Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, che ha pure costituito un’importantissima banca dati.»

Le nuove minacce richiedono di rivedere gli approcci tradizionali di conservazione?

«Sì, come mostra fra l’altro un altro esempio italiano, quello dei Sassi di Matera. Studiando le idee ingegnose locali utilizzate per la gestione dell’acqua, tante città storiche minacciate dall’aumento della siccità possono ispirarsi per provare a restare pienamente abitabili. Più in generale, l’adattamento al cambiamento climatico richiederà un’apertura crescente a quanto possono insegnarci i saperi tradizionali di molte culture. Una riflessione simile è già cominciata in Medio Oriente, anche nel Golfo Persico, come nel Bahrein. In Oman, vengono per questo particolarmente protette le canalizzazioni tradizionali che irrigano i palmeti. Il problema cruciale resta quello d’impiegare ogni mezzo per difendere l’abitabilità dei siti patrimoniali».

Ciò significa che le società civili saranno sempre più sollecitate?

«Certamente. Occorre diffondere al massimo ogni sapere e competenza utile proveniente anche dalle popolazioni. Questo, naturalmente, senza trascurare in generale gli apporti delle tecnologie moderne più innovative, quando possono risultare utili. Fino agli anni Cinquanta, l’approccio alla conservazione patrimoniale era gestito su scala nazionale, ma si è poi vieppiù internazionalizzato grazie anche all’Unesco. In questo quadro, si è pure di continuo rafforzato il legame fra protezione del patrimonio culturale e protezione di quello naturale. Non è più possibile lavorare considerando i beni culturali come strutture isolate, senza consultare ad esempio anche degli specialisti del contesto naturale».

Il riconoscimento dell’universalità di certi siti è un patrimonio in sé da difendere?

«L’internazionalizzazione della difesa patrimoniale è un grande valore in sé, soprattutto quando il mondo torna di nuovo a fratturarsi. Quando ho cominciato a lavorare a Mostar, arrivando con il contingente spagnolo dell’Onu, la città era divisa in due. Oggi, la ricostruzione dello Stari Most ha permesso di riunire comunità che si sono battute l’una contro l’altra. Lo stesso vale per l’approccio condiviso nel restauro dei diversi luoghi di culto. Rivitalizzare un patrimonio mutilato significa provare ogni volta a ritrovare questo valore simbolico dell’unità fra le persone. Così è attualmente pure per la città di Mosul, dove mi reco regolarmente e che nel 2024 conoscerà importanti inaugurazioni».

Vi risuoneranno anche nuove campane in arrivo dall’Italia…

«Sì, con tanti accenti italiani anche fra i responsabili del progetto di restauro della città, a cominciare dalle chiese e dalla moschea. L’apporto dell’Italia in questo campo è da sempre molto prezioso».

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