Maestro degli edifici gotici, d'après dalla "Madonna del Magnificat" di Botticelli - / Montpellier, Musée Fabre
Raffaello è il re degli artisti-imprenditori. Anni fa lo accostai a Warhol come abile gestore di una factory rinascimentale, dove in effetti l’urbinate, venendo a Roma, applicò le sue doti di artista “totale” raccogliendo attorno a sé molti assistenti e, per quanto potessero, soci di una premiata ditta che lasciò nell’Urbe prove che vanno dalla pittura, in particolare ad affresco, alla scultura, all’architettura fino all’archeologia e all’urbanistica, dettando anche una vera filosofia del bene culturale. Non guasterebbe, dunque, se a Raffaello oltre alla qualifica d’artista si associasse quella di designer. Del resto, vanno di moda le sigle creative che uniscono una varietà di talenti proponendo prospettive come quella – parafrasando un celebre slogan caro ai designer – che va “dal web alla città”, ovvero filosofie dell’essere e del divenire articolando l’effimero e il virtuale con l’oggetto da vivere sempre più come protesi di se stessi e rappresentazione collettiva.
Il rinascimento fu, a suo modo, un precursore di questa mentalità “totale” e quindi non sorprende che a Parigi dedichino una mostra a Botticelli «artista e designer» (fino al 24 gennaio). Accade al Museo Jacquemart-André, nato dalla collezione dei coniugi Edouard André e Nélie Jacquemart: lei visse fino al 1912 ed ebbe tra i suoi antiquari di fiducia Stefano Bardini, da cui acquistò l’opera che chiude la mostra, cioè La fuga in Egitto assegnata all’atelier botticelliano. Era dal 2003 che Parigi non dedicava una mostra all’artista fiorentino, l’aveva ordinata un grande studioso morto prematuramente, Daniel Arasse, come ricorda la curatrice dell’attuale rassegna, Ana Debenedetti. La qualifica di designer è forse un po’ generosa per Botticelli, ma qui vale nel senso che s’intende leggere un aspetto dell’opera di Alessandro Filipepi – figlio di Vanni “conciatore”, che Vasari nelle Vite chiama Sandro Botticello, nato a Firenze nel 1445 e ivi morto sessantacinque anni dopo – come “capobottega” di un alacre atelier, che sfornò decine e centinaia di opere in quarant’anni d’attività; da lì passarono «infiniti giovani», scrive Vasari, ma di cui molto ancora ignoriamo nonostante alcune testimonianze; erano talvolta assistenti fidati che continuarono a produrre opere anche negli ultimi anni di vita di Botticelli, quando la sua salute calava (tra l’altro morì, come scrive impietosamente ancora Vasari nell’edizione delle Vite del 1550, «infermo e decrepito, ridotto in miseria»).
Sandro Botticelli, "Madonna col Bambino" - / Avignone, Petit Palais
La mostra espone opere importanti che vengono anche da collezioni europee e americane – per esempio il Coronamento della Vergine di Miami cui sono accostate i pannelli della predella, divisi tra Bargello e Vaticano, assegnati appunto a un collaboratore probabile, che Christopher Daly si domanda se sia Jacopo Foschi, ma per ora è noto come Maestro degli edifici gotici. Foschi per molto tempo è stato un “nome senza quadri”, tutt’al più il padre del più celebre pittore manierista Pier Francesco Foschi. Su questo caso tornerò tra poco perché è uno dei punti qualificanti della mostra, che mettendo in campo la definizione di designer per Botticelli, intende sottolineare la natura di “atelier polivalente” che aveva creato – come scrive Alessandro Cecchi, direttore della Fondazione Casa Buonarroti – rivaleggiando con quello di Verrocchio e quello dei Pollaiolo; un’opera che si dirama fondandosi sulla matrice del disegno, dove Sandro eccelleva, quindi su cartoni usati poi nelle diverse composizioni, e spaziava dalle miniature, all’incisione e all’affresco, dall’arazzo alla numismatica, dai paramenti liturgici all’oreficeria, arte con cui l’artista cominciò formandosi nella bottega dell’orefice Maso Finiguerra.
Ma il caso Botticelli è tutt’altro che chiarito, sebbene alcune sue opere siano ormai parte della nostra memoria collettiva ( La nascita di Venere, la Primavera, alcune sue Madonne col Bambino). Le fonti sono scarse, forse anche perché dopo la morte molto presto venne quasi dimenticato, e fu riscoperto nel secondo Ottocento per quel suo esprimere un’arcaicità che richiamava l’antico ma con una certa virilità di segno mista a eleganza. Stupisce sempre leggere Vasari, perché se ne verifica la perfidia spesso crudele. Fra l’edizione delle Vite del 1550 e quella del 1568, definisce le opere di “Botticello” belle e pregevoli ma – come nota Patrizia Zambrano nel catalogo – sembra a corto di superlativi quando deve rendere conto di questo disegnatore formidabile. Giudica apprezzabili le opere ma instabile l’uomo, «inqueto sempre», «cervello sì stravagante», «persona sofisticata », in sostanza è maldisposto verso di lui, forse perché girava ancora la voce che avesse aderito alla setta savonaroliana (tutto da dimostrare). L’immagine che ne dà Vasari insomma è mal calibrata, anche sotto il profilo psicologico, e lo prova l’edizione del 1568 che sopprime alcuni passaggi di quella del 1550 dove aveva scritto che era «persona molto piacevole e faceta » incline anche a fare scherzi pesanti come quando pare avesse accusato «per burla uno amico suo di eresia». Il pittore commosso dall’amore diventa allora soltanto «diligente » e questo, scrive Zambrano, «nell’orizzonte concettuale di Vasari, tradisce una caduta vertiginosa », così che la figura di Botticelli emerge come «eterno perdente », trascurato e poco capace di gestire i suoi beni (per questo finì, conclude l’aretino, in miseria).
La mostra si apre con una tenerissima tempera della Vergine e il Bambino sostenuto da un angelo, opera giovanile, quando ancora era nell’atelier di Filippo Lippi, e si conclude con La fuga in Egitto del Museo parigino, assegnata alla bottega. In tutto cinquantuno opere. Quest’ultimo dipinto riprende i modi di Sandro ma con una minore efficacia nella composizione, impostata sulla diagonale che collega l’asino in primo piano, di «taglia smisurata», scrive Daly, con la figura “retrocessa” di Giuseppe. Allo stesso Daly tocca il compito d’inquadrare la figura del Maestro degli edifici gotici, così chiamato per il ricorrere in molte opere a lui assegnate di sfondi con scenari goticizzanti (in realtà, scrive Daly, si possono riconoscere analogie formali e stilistiche anche nei modi di trattare le figure). Se ne sono occupati in molti, fra cui Colnaghi e Zeri, facendo talvolta confusione con due diversi artisti, Jacopo di Domenico e Jacopo Foschi, oggi ben distinti dalle ricerche di Cecchi; tuttavia Waldman nel 2005 verificò che la famiglia di Jacopo di Domenico si chiamava effettivamente Foschi. Ma, come ricorda Daly, la confusione rimonta già a Vasari che aveva scritto di «Pier Francesco di Jacopo di Sandro».
Maestro degli edifici gotici, “La Vergine e san Giovanni Battista adorano il Bambino” - / Parigi, Museo Jacquemart- André
Questioni da storici? Senza dubbio, ma Daly compone un regesto inedito delle opere aggiornato dove al Maestro degli edifici gotici sono assegnate alcune decine di opere presenti in grandi collezioni museali. Alla pinacoteca Ambrosiana, per esempio, è presente una delle opere più importanti, una Pietà che ben si concilia nello stile con un Uomo dei dolori coi santi Francesco e Girolamo dell’Ermitage. La mostra, oltre alla predella già ricordata che venne smembrata nel 1880 dal Coronamento della Vergine, espone un tondo con il d'après dalla Madonna del Magnificat, opera ovviamente molto botticelliana nel segno rispetto alle opere citate, e un altro tondo – genere molto in voga all’epoca, in analogia coi deschi da parto, assieme anche a quello dei cassoni – La Vergine e san Giovanni Battista adorano il Bambino davanti a una veduta di Venezia del Museo parigino; l’evocazione della Laguna apparentemente sembra strana, ma in realtà non tanto, e Daly ci ricorda quanto un pittore come Lotto fosse interessato e sensibile alla pittura fiorentina. Seguendo le tracce del Maestro degli edifici gotici e quelle di Jacopo Foschi («che riceveva da Botticelli un salario più alto degli altri assistenti», quindi doveva essere un collaboratore di fiducia del capobottega) Daly ipotizza dunque una sovrapposizione fra le due figure, che ha molti motivi d’interesse.