Jheronimus Bosch, “Le tentazioni di sant’Antonio” (particolare). Madrid, Prado - WikiCommons
Considerando il Rinascimento e la riscoperta dei classici greci e latini come un’epoca dove la visione della vita s’accompagna a una maieutica di grande erudizione, la stessa morale, facendo tesoro del pensiero antico, porta in primo piano la facoltà di giudizio dell’individuo. La prospettiva moderna, come aveva a suo tempo colto assai bene Ernst Gombrich, rappresenta una conoscenza del mondo da un “punto di vista” rispetto al quale non ci è dato «vedere dietro l’angolo». La metafora prospettica pone sotto il potere dell’occhio la realtà rappresentata attraverso i raggi che, nella forma di un cono, arrivano sull’oggetto e in un certo senso lo “catturano”, lo pongono sotto il controllo visivo dell’individuo. Sta in questa convinzione la vera differenza rispetto alla geometria di Euclide, che pure è la base della stessa prospettiva scientifica. E non a caso, Panofsky scrisse un celebre saggio sulla “prospettiva come forma simbolica”. Il mondo fiammingo lungo il XV secolo apre questa prospettiva a un’idea di mondo allargata a più “punti di vista”, dove la prospettiva pur rimanendo unitaria nelle sue regole descrittive, si apre a stratificazioni e moltiplicazioni di oggetti. Il realismo nordico trova in questa “molteplicità” una delle sue logiche di rappresentazione dello spazio, assieme alla lenticolarità che descrive minuziosamente i particolari e i soggetti. Nel “teatro della realtà” si perde la nitidezza dello sguardo d’insieme e prolifera una sorta di caoticità dalla esplicita valenza simbolica e morale. Non più solo la forma descrittiva dell’insieme, ma il rilievo del singolo particolare o soggetto che compone la scena. A suo modo, è un anticipo dell’idea protestante della predestinazione, dove il valore simbolico che la figura umana assume all’interno dell’opera è un monito, o un “caso morale”, che in ambito religioso regola l’opposizione fra peccato e virtù. L’Imitazione di Cristo, il testo della devotio moderna attribuito al monaco Tommaso da Kempis ma probabilmente di altra mano, dice proprio questo: è la virtù che rende amabile l’uomo agli occhi di Dio. Ma la virtù è anche il parametro che consente, nella visione che anticipa la riforma, di applicare alla realtà il principio della predestinazione. Pochi sono i salvati molti i condannati alla bestialità del peccato.
È a partire da questa opposizione che viene rappresentato il mondo da pittori olandesi come Jheronimus Bosch e Peter Brughel il vecchio (dal quale discende una famiglia artistica che ne amplifica il linguaggio e lo stile fino al Seicento). Anche se volessimo prendere per buona la “rivalutazione” di Bosch che Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi sottolineano introducendo la mostra ora in corso a Palazzo Reale "Bosch e un altro Rinascimento" (fino al 12 marzo), fissandola in tempi a noi vicinissimi, ovvero al 2016, quando si tennero a ‘s-Hertogenbosch (Bosco del Duca), città natale del pittore, e a Madrid, le due mostre per il cinquecentenario della morte, in realtà la fama di Jheronimus van Aken (così si chiamava all’anagrafe Bosch), è ben precedente e proprio per l’inconfondibile linguaggio e per lo stile sempre pungente nel rappresentare con ironia le manchevolezze del genere umano. Perché è il genere umano il tema della sua pittura, che si rispecchia in una visione d’insieme del senso che si manifesta nella Creazione. La diffusione delle incisioni, documentato anche in mostra con vari esempi, e l’imporsi del gusto per le cose naturali e artificiali che culmina nelle Wunderkammern, hanno contribuito alla memoria del surreale linguaggio boschano, come sottolineano adeguatamente i curatori. Si può pensare che il pittore olandese abbia patito qualche pregiudizio critico “modernista” ostile a un immaginario che oscilla continuamente tra il magico e il fantastico, che spazia dal grottesco all’emblematico, le cui radici affondano sicuramente nella cultura teratomorfa e nel grottesco, di cui Bosch è un interprete modernissimo. Se anche, come i curatori della mostra ricordano, allo stato attuale la maggior parte degli storici ritengono che i dipinti certi oggi attribuibili a Bosch non siano più di una ventina (talvolta con firme che sembrano giustapposte successivamente alla sua morte), tuttavia basterebbero opere di sublime arguzia iconografica come Il Giudizio Universale o il Giardino delle delizie a renderne imperitura il ricordo (per questo, sarebbe stato consigliabile, nell’elogio che ne fanno i tre studiosi, evitare toni mediatici che definiscono Bosch una “ mega-star di livello mondiale”, perché così anche le migliori intenzioni finiscono per cadere nel prosaico linguaggio del grand tour di massa).
Jheronimus Bosch, “Trittico del Giudizio”, pannello centrale. Bruges, Groeningemuseum - WikiCommons
Ciò che finalmente viene portato alla luce in questa mostra non è tanto la fama consolidata in anni recenti, quanto la prevalenza del “ridicolo” e della “ragion comica” che è, ben più del moralismo devoto, il tema fondamentale di Bosch; ciò che rende i fuochi infernali, i mostri e gli animali fantastici, come pure il riso di fronte alle debolezze umane più carnali, un segno urticante anche per quel Rinascimento che guarda agli antichi. I curatori preferiscono parlare di “Rinascimenti” o “Rinascimento alternativo”, e la scelta delle opere, anche di contesto, o di copisti e imitatori, oppure di autori attenti a elaborare una propria via alla modernità umanistica, risponde proprio a questa idea critica. Cioè, elaborano un discorso che pone in gioco una pluralità di modi, idee, pensieri anche in contrasto con la linea maggiore sotto la quale comprendiamo un periodo che dal XV secolo si spinge quasi alla fine del XVI (tema delle preoccupazioni di Longhi quando nella mostra del 1951 metteva in guardia chi avrebbe voluto trasformare Caravaggio nel “portiere di notte del Rinascimento”). Pluralità antagonista alla linea degli “Uomini d’oro”, per ricordare ancora Longhi in polemica coi grandi artefici del periodo, ma non in quanto espressione alta della periferia, bensì proprio come linea anticlassica, definita da Eugenio Battisti “antirinascimento”.
La verità è che, oggi, Rinascimento è categoria logorata dall’uso e occorre uno sforzo per uscire dallo stereotipo. Bosch ci aiuta a fare un passo “strabico” o laterale, per così dire; a riconsiderare il suo tempo e quello successivo proprio nell’ottica dell’aberrazione (argomento preso in esame a suo tempo da Jurgis Baltrušaitis), non soltanto come proiezione distorta del vedere, ma come modo di pensare il mondo. Rovesciato, deformato, ironizzato: una linea alternativa ai prossimi sviluppi del manierismo che restano, pur sempre, un’applicazione del letto di Procuste al Rinascimento classico. Che si trovi l’impronta di Bosch in autori padani come Savoldo e Dosso Dossi e che la sua “estetica” abbia trovato copisti e imitatori (in mostra vi sono alcuni esempi) e che fra gli “altri Rinascimenti” possa entrarvi un pittore come Piero di Cosimo, è un rilievo critico che ci risulta facile se non altro dopo un secolo di consumazioni surrealiste – nel senso proprio con cui Dalí pensa a un altro fantasioso inventore di forme come Gaudí, quando parla di «muri pronti per essere mangiati al cucchiaio» –. In realtà, il ponte per così dire si allunga all’indietro fino alla cultura delle deformità e dei mostri medioevali, e si potrebbe retrocedere ancora molto perché queste presenze teriomorfe si ritrovano già nei riti magici e apotropaici e nei vari idoletti. Con “buffonesco” i curatori introducono il tema fondamentale dell’iconografia boschana. Oltre vent’anni fa parlando del pittore brabantino scrissi che la sua pittura assume spesso i toni di «un fumettone infernale dove si gioca la partita tra Bene e Male», e concludevo che «Bosch è, in effetti, un’espressione del comico, prodotta con grande convinzione, ma in un ambiente dove il grottesco va prendendo il posto della tragicità implicita nel riso». Manca lo spazio per dilungarsi sulle ragioni del riso (atteggiamento che gli antichi criticavano come mancanza di rispetto dell’altro e abbassamento della stessa dignità di chi ride, ma che il pensiero moderno ha ampiamente e opportunamente visto come arma di difesa verso il potere). Certo una proiezione andrebbe svolta nel rapporto di Bosch col potere. È ormai assodato negli studi ciò che ancora qualche decennio fa veniva interpretato sotto le forme del moralismo devoto; in realtà, Bosch ancora vivo, la sua pittura è stata letta con la categoria del “ridicolo”: «Non è da escludere che, sotto l’apparenza del “risibile”, le opere più impegnative di Bosch in realtà nascondessero... messaggi critici di carattere socio-politico o religioso (eterodosso) », scrivono i curatori. Tema che terrà occupato gli studi per altri decenni. Al pubblico che vedrà questa mostra suggerisco invece di avere “altri occhi”, senza pretendere di svelare i sensi occulti dei dipinti di Bosch, ma lavorando sulla percezione della forma e dell’immagine, al solo scopo di capirne la vena comica che, una volta riconosciuta, potrà anche offrire la chiave per interpretazioni simboliche, che forse rimarranno per lo più senza conferme perché il sistema dei significati di questa pittura è oggi abbastanza criptico. Serve una indagine alla Warburg, e soprattutto una discesa erudita fra le maglie della cultura di quel tempo. Ma è una partita che vale la pena di giocare.