sabato 20 agosto 2016
BOSCH, le delizie dell'arrostito in mostra a Madrid
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Nei dipinti di Hieronymus Bosch c’è spesso un incendio ed è difficile che manchi una scala. Dettagli, si potrebbe dire, ma è proprio su particolari e minuzie che istintivamente ci si sofferma mentre si attraversano le sale della  grande mostra che il Prado di Madrid dedica all’artista fiammingo nel quinto centenario della morte. Una rassegna, questa su El Bosco (fino all’11 settembre), che si pone in continuità con l’altra, Visioni di un genio, svoltasi nei primi mesi dell’anno a s’Hertogenbosch, la città olandese nella quale il pittore visse e operò fin quasi a immedesimarsi con essa, tanto da modificare il proprio cognome originario, van Aken, nel più allusivo Bosch. Che proprio “bosco” significa: foresta originaria, selva di simboli, riserva di caccia. I significati si accostano l’uno all’altro, in un’ambiguità che rischia di apparire impenetrabile. Così accade per l’incendio, del resto, così è per la scala. Fiamma che purifica oppure castiga il primo; mistico strumento d’ascesi ma anche attrezzo d’assedio la seconda. A volte si spiegano a vicenda, come accade nel trittico delle Tentazioni di sant’Antonio solitamente esposto a Lisbona e che in questi giorni si ammira appunto al Prado. Nel pannello centrale, sullo sfondo, un diavolo alato vola a espugnare una città che già brucia. L’aggressore porta con sé una scala, forse la stessa che ritroviamo qualche sala più in là nel Giudizio Universale proveniente da Bruges, in Belgio, in un contesto più grottesco che cupamente epico. A servirsene è un demone guerriero che ha già infilzato un mostriciattolo e che adesso dà l’assalto al padiglione su cui fa bella mostra di sé un organistrum – ibrido musicale tra arpa e liuto – simile a quello che si ritrova nella celebre descrizione infernale compresa nel Giardino delle delizie: il più enigmatico e discusso fra i capolavori del fiammingo, il quadro davanti al quale il flusso del Prado già normalmente si arresta, figurarsi in occasione di una mostra come questa.  La più vistosa delle scale di Bosch si trova però nel Carro da fieno, anch’esso appartenente alla collezione permanente del museo madrileno. Anzi, le scale qui sono addirittura due: una l’adopera nel pannello centrale il contadino che cerca di raggiungere l’ingannevole aiuola paradisiaca situata in cima al carro, l’altra appare nella scena infernale del- l’anta di destra, in una situazione del tutto analoga a quella già riscontrata nel Giudizio universale. Ci sarà pure un motivo se, per molto tempo, Bosch è stato apprezzato anzitutto come “facitore di diavoli”. Le sue rappresentazioni di supplizi restano insuperabili, non tanto per la violenza che esprimono, ma per la capacità di evocare «un male immateriale, un principio d’ordine spirituale che deforma la materia, un dinamismo che si oppone all’andamento della natura». Sono parole di uno studioso olandese del primo Novecento, Louis van den Bossche, ancora utili per apprezzare la parentela sotterranea che lega le visioni di Bosch agli incubi metafisici di Kafka: la macchina persecutoria di Nella colonia penale, per esempio, non sfigurerebbe nell’armamentario che vediamo in azione in uno dei molti inferni squadernati dal pittore. Il fuoco abbonda, com’è giusto, ma è un fuoco freddo, alchemico, nel quale gli elementi si confondono e rinascono, seguendo lo stesso criterio di contaminazione che caratterizza la più conosciuta delle invenzioni di Bosch, quell’Uomo-Albero che, ritratto in uno strepitoso disegno dell’Albertina di Vienna, ha un ruolo di assoluta rilevanza nella struttura del Giardino delle delizie. Che l’immaginazione alchemica occupi un posto importante nel costituirsi dello stile di Bosch è un dato indiscutibile, ma questo non autorizza ad avallare interpretazioni della sua opera in senso eterodosso. Uno dei maggiori meriti dei testi raccolti dalla curatrice Pilar Silva Maroto nell’ottimo catalogo della mostra del Prado consiste proprio nella contestazione del luogo comune che farebbe di Bosch un pittore esoterico (è la tesi sostenuta negli anni Quaranta dal critico tedesco Wilhelm Fraenger in un saggio sul Regno millenario di Hieronymus Bosch noto anche al lettore italiano). Tutto quello che vediamo, compresa la sensuale fantasmagoria del Giardino delle delizie, ha un riscontro nelle fonti dell’epoca, molte delle quali di ascendenza letteraria, come La nave dei folli di Sebastian Brant, apparsa per la prima volta nel 1494 ed esplicitamente richiamata da Bosch in un dipinto pressoché contemporaneo. Particolarmente feroce quando si tratta di condannare i vizi (re Filippo II teneva il tondo dei Sette peccati  capitali nel suo appartamento all’Escorial), Bosch si richiama a un ideale perfettamente ortodosso, di evidente matrice cristologica, nel momento in cui indica il cammino delle virtù. Il suo modello sono gli anacoreti: il sant’Antonio delle diverse Tentazioni, il San Gerolamo in preghiera di Gand. Magnifico, tra i dipinti di soggetto sacro, Il Cristo deriso in prestito a Madrid dalla National Gallery di Londra. A differenza di quanto accade nel Trittico della Passione di Valencia, in questa tavola il grottesco è appena accennato e la maestà della vittima conferisce un’eleganza struggente e dolcissima perfino al gesto del carnefice che impone la corona di spine. È l’altro Bosch, ancora più segreto di quello infernale. Un pittore in piena sintonia con i temi e le motivazioni della devotio moderna veicolata dall’Imitazione di Cristo. Più che un precursore dei surrealisti, che da lui riprenderanno la spregiudicatezza della mescolanza tra organico e inorganico di cui L’Uomo-Albero rappresenta il vertice, Bosch è un tardivo interlocutore della Commedia dantesca, come ricorda un’opera peraltro conosciutissima da noi italiani, ma che nel contesto della mostra del Prado assume il valore di una piccola rivelazione. Parliamo delle Visioni dell’Aldilà dell’Accademia di Venezia, dove gli elementi tipici della pittura di Bosch sono convocati quasi in miniatura. L’Eden perduto, l’Inferno, il Paradiso. Alle brutalità dei diavoli che spingono i dannati nell’abisso corrisponde il gesto liberatorio, di nuovo leggero e rituale, degli angeli che lasciano la presa sugli eletti, in modo da permettere loro di raggiungere l’empireo. La beatitudine, là in alto, è un punto di luce, un incendio che non si consuma. Non serve più una scala per arrivare fin lì.
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