lunedì 21 dicembre 2020
Parla Peter Paul Kainrath, direttore artistico del premio pianistico di Bolzano che ha sviluppato le preselezioni attraverso streaming in quattro continenti con grosso riscontro di pubblico
Peter Kainrath, direttore del Concorso pianistico Busoni di Bolzano

Peter Kainrath, direttore del Concorso pianistico Busoni di Bolzano - Concorso pianistico internazionale Ferruccio Busoni

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Novantatre candidati (scelti su 506 candidati iscritti), 23 troupe di ripresa per altrettanti hotspot negli showroom della Steinway & Sons in 19 Stati e 4 continenti, e un pubblico digitale quasi sconfinato: sono poco meno di 420mila a oggi le visite al sito, alle quali si sommano le circa 4.500 sul sito della Steinway e 60.000 accessi attraverso la piattaforma cinese amadeus.tv: sono i numeri del Glocal Piano Project con cui il Concorso pianistico Ferruccio Busoni, uno dei principali a livello internazionale, ha sviluppato nelle scorse settimane le fasi di preselezione, normalmente tenute a Bolzano fin dalla sua nascita nel 1949.

Non solo la fase online ha dato visibilità a giovani musicisti, le cui performance sarebbero state altrimenti oggetto dell’ascolto di pochi, ma ha consentito al pubblico di dire la propria. I 19.663 i voti espressi da utenti registrati: così oltre ai 25 candidati (tra i quali otto italiani) scelti dalla giuria internazionale tra coloro che si contenderanno (dal vivo a Bolzano) il Premio Busoni nell’estate del 2021 se ne sono aggiunti altri sei scelti dal voto popolare.

Il Busoni è stato il primo ad adottare questa opzione, certamente dettata dalla pandemia ma trasformata in opportunità da Peter Paul Kainrath, dal 2007 direttore artistico del concorso. Pianista di formazione e manager di professione, Kainrath è una figura insolita nel panorama della musica classica. In virtù dei suoi molti interessi è anche coordinatore del Bolzanofestivalbozen, fondatore nel 2001 di Transart, pionieristico festival altoatesino dal carattere multidisciplinare e multimediale, nonché membro della struttura direttiva di Manifesta, biennale “nomadica” europea di arti visive. Ultimo incarico aggiunto al suo curriculum è quello prestigioso di intendant del Klangforum Wien, tra i più importanti ensemble europei di musica contemporanea.

Maestro Kainrath, che esperienza è stata quella del concorso “glocale”?

«Su tanti livelli è stata un’esperienza entusiasmante, dalla quale abbiamo molto imparato. Innanzitutto ci ha insegnato che possiamo lavorare in chiave contemporanea a un concorso con una tradizione illustre - il Busoni è stato fondato oltre 70 anni fa tra gli altri da Cesare Nordio e Arturo Benedetti Michelangeli - e tra i principali nel mondo. Abbiamo adottato letteralmente una dimensione internazionale, ed è stata un'esperienza che ha dato scossa positiva. Il pubblico che ci segue a Bolzano è per forza di cose limitato. Con questi strumenti abbiamo raggiunto pubblici “bolzanini” fuori, nel mondo. Abbiamo così potuto valorizzare la preselezione, che spesso è fraintesa come fase secondaria e invece è il momento determinante, perché è lì che in un certo senso si sceglie il vincitore: sbagliare allora nel giudizio comporta errori ai quali non si può più rimediare. Questi ragazzi, inoltre, hanno potuto suonare nel loro territorio, come del territorio erano i partner tecnici, che hanno dovuto seguire un protocollo molto preciso. Non solo abbiamo dato a chiunque la possibilità di vedere questa fase, locale e globale insieme, come dice il titolo, ma abbiamo anche chiesto al pubblico di partecipare. È stato così possibile raccogliere una platea impensabile in autunno così difficile»

Sotto un profilo generale quali elementi se ne possono trarre?

«A prescindere dal progetto in corso, se in questa pandemia molte persone criticano la globalizzazione, questa esperienza insegna invece che occorre ragionare davvero in modo globale. Prima della pandemia il mondo era un motore surriscaldato di scambi, in cui noi eravamo sempre noi e gli altri gli altri. Nel campo della musica classica, almeno, abbiamo capito che si deve ragionare in dimensione planetaria. Ci sono poi aspetti più specifici. Mentre tanti progetti si sono fermati, la visibilità del concorso è cresciuta in modo esponenziale. Con i 20mila votanti registrati ora possiamo comunicare in modo diretto. È un tema su cui ci siamo confrontati proprio in questi giorni con la World Federation of International Music Competitions, della quale il Busoni è stato tra i fondatori nel 1957, e insisto a dire che questo è un ottimo momento per i concorsi musicali. Nel mondo ce ne sono circa 7.000: la federazione, che esprime l’eccellenza, conta invece 120 membri. Questa fase non potrà che fare selezione, valorizzando i concorsi seri. Sul fronte concertistico, molto imploderà. Le star rimarranno, ad essere sacrificato sarà il settore medio, pure importante. Ma questa sarà una chance incredibile per giovani, freschi, con talento e cachet ragionevoli. Esattamente la fascia che come concorsi dobbiamo valorizzare».

E quando la pandemia si sarà assorbita?

«Non credo ai concorsi totalmente online. Certo, ora lo streaming è preziosissimo, ma nel post pandemia dovrà essere relativizzato. L’artista è fatto per suonare dal vivo su un palco davanti a un pubblico. Su streaming l’aura non arriva. Questo non vuole dire che l'online non resti strumento utile. Anzi, nel futuro postpandemico, il Glocal piano project sarà uno strumento da sviluppare ulteriormente. Intendiamo organizzare 20 festival pianistici nel mondo, dai quali una giuria trarrà i candidati per la fase finale, rigorosamente dal vivo. Solo lì hai la certezza di giudicare l’aura. Io vedo insomma un formato ibrido, che ragiona con precisione sulle sei fasi del concorso, ognuna delle quali ha bisogno di una sua specifica forma».

Molti musicisti lamentano che il vero problema del concerto in diretta streaming sia proprio l’assenza del pubblico.

«I musicisti vivono l’assenza di applauso come il momento più straniante e pesante dei concerti in streaming. Penso però a Jorge E. López, un compositore americano, che ha scritto un pezzo in cui si intreccia un happening contro l’applauso: i percussionisti hanno il compito di “uccidere” l’applauso finale con una performance improvvisata... Dai musicisti particolarmente rigorosi l’applauso è vissuto come un addolcimento, un impacchettare un’esperienza radicale. Ci sono brani che sembrano chiedere solo il silenzio. Quando tutto si chiude con l’applauso frenetico è come togliere la spina dell’esperienza. A volte non essere nel rituale del concerto può essere un vantaggio».

Lei ha parlato dell’organizzazione di un festival come di una questione di forma. Per quanto passi da uno schermo, la musica via web fino a che punto è assimilabile a quella fruita attraverso la tv (sebbene le smart tv stiano cambiando il concetto di forma e tempo del programma televisivo)? Il web richiede, insomma, una riflessione su forma/format della musica?

«In questa disperazione di non volerci fermare, e per questo produciamo di tutto trasmettendolo in ogni modo possibile, il prodotto è percepito, credo e temo nel 90% dei casi, su apparecchi del tutto inadeguati. Inoltre oggi si riflette troppo poco su cosa l’immagine aggiunga e contestualizzi. Penso al caso storico di Benedetti Michelangeli, o ancora a von Karajan, attentissimo nel curare la ripresa televisiva. La questione inizia quindi dalla produzione e subito dopo tocca la fruizione. La musica riprodotta esiste per essere ascoltata come musica. Quello che noi viviamo nel concerto è più completo e complesso, perché condividiamo lo stesso spazio con l'interprete. Percepiamo come entra, come si pone… la sua fisicità, insomma. Sono ulteriori informazioni che nei semplici concerti filmati vengono a cadere e finiamo per avere un ritratto bidimensionale di musicisti in movimento. Cosa ci porterà la pandemia? Credo una riflessione più approfondita su ciò che l’immagine può aggiungere all’interpretazione».

Una manifestazione come Transart lavora in modo sistematico tra iperfocale, con eventi ambientati in piccole località alpine, e internazionale. In questo senso l’esperienza del territorio è essenziale. La delocalizzazione dell’esperienza fa venire meno il territorio? O resiste?

«Le rispondo con due esempi. Nel settembre scorso abbiamo organizzato all’interno di Transart, insieme con il Center for Advanced Studies di Eurac Researc, il Congresso futurologico su intelligenza artificiale e arte. Lì si è potuto capire il potenziale del formato ibrido: cinque speaker da più continenti erano presenti online, ma con un allestimento che garantiva il totale coinvolgimento dello spettatore in presenza. L’esperienza deve essere nel pubblico: non ci si può limitare a una replica magra, o una versione più grande dello schermo di casa. A Transart abbiamo sperimentato concerti ibridi. La vocalist e performer norvegese Maja Solveig Kjelstrup Ratkje ha cantato stando in mezzo al Mdi Ensemble: ma se gli strumentisti erano in presenza, lei era una proiezione in dimensioni reali su schermo mentre "fisicamente" era nel suo studio a Oslo. Certo, la composizione consentiva una esecuzione con un ritardo di un secondo, in altri casi questo non è possibile. Ma sono aspetti che vogliamo sviluppare a prescindere alla pandemia».

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