martedì 7 agosto 2012
​Super Usain: «Non avevo dubbi che avrei vinto nei 100. Adesso ci sono i 200, la mia gara preferita». L'addio di Michael: «Dopo 20 anni in vasca, penso sia giunto il momento di smettere. Mi divertirò anche fuori dalla piscina».
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​L'uomo che ha fulminato l’Olimpiade viene da un altro pianeta. Si chiama Usain, abita una razza diversa, pratica un’altra velocità, viaggia solo in corsia di sorpasso. Più o meno come l’altro, l’uomo cioè che l’Olimpiade l’ha affogata. Quello si chiama Michael, ha vinto più di ogni altro nella storia dei Giochi e adesso si è stufato di avere solo pensieri liquidi. Bolt e Phelps, pista e piscina, le cattedrali dei Giochi: quattro anni dopo non è cambiato nulla. Da Pechino a Londra, lo sport si inchina ancora davanti ai più grandi. Sempre loro, solo loro. Altro che sfide lanciate, dualismi e rivali emergenti. In cento metri bruciati con disarmante superiorità, Usain Bolt s’è ripreso il mondo in 9 secondi e 63 centesimi, secondo tempo di sempre dopo il suo 9”58 targato Mondiali 2009. Anche Michael Phelps è arrivato al traguardo, solo che lui ora si ferma. Dopo 22 medaglie olimpiche (18 ori) totali e 6 podi a Londra, il cannibale americano del nuoto che da piccolo aveva paura dell’acqua e non riusciva a mettere la testa sotto, ieri ha annunciato ufficialmente che si ritira dall’agonismo. «Dopo 20 anni in vasca, penso sia arrivato il momento di dire stop. Il futuro non mi fa paura, credo proprio che mi divertirò anche fuori da una piscina». Bolt, invece, si diverte solo in corsia. L’altra notte ha ipnotizzato il pianeta (solo in Italia quasi 7 milioni per la diretta di Rai2): partenza non superba, come suo solito, e decollo nella seconda parte di gara quando ha staccato Justin Gatlin, il più veloce in semifinale. Anche Yohan Blake, l’emergente e il più accreditato a superare il maestro, si è arreso presto: finendo battuto, sfiancato, comunque secondo. Sette atleti su otto sotto i 10 secondi in una finale olimpica. E sarebbero stati tutti, se Powell non si fosse infortunato nel finale: risultato strepitoso. Gli Stati Uniti si accomodano dietro, balla solo la Giamaica. Due suoi figli sono gli uomini più veloci della terra, ma anche le donne in giallo e verde sono lampi irraggiungibili. Shally Ann Fraser Pryce oro nei 100 femminili, Veronica Campbell Browne bronzo: ci vuole più tempo a scriverne il nome che a vederle al traguardo. Giamaica, la Speed Generation. Gioventù sfrenata, non bruciata. «Vinciamo perché siamo ex schiavi», spiega alla Bbc Ian Foster, uno storico originario di Kingstone. «Tra gli schiavi solo i più forti sopravvivevano». Non è solo questo, non può esserlo. Perché la Giamaica è un controsenso, più che un luogo: spinelli e rum, i ritmi sensuali e lenti del reggae mentre in pista sono tuoni e fulmini. «No rush», ti dicono per tutto, nessuna fretta. Ma poi corrono come ghepardi, dopo averlo imparato in strada, dove la vita è rimboccarsi il fiato. Nemmeno 3 milioni di abitanti per un Paese che tiene in scacco il mondo della velocità. Che in Giamaica è diventato un brand, un prodotto d’esportazione per un’umanità pigra che non sa più volare. “Un Paese in missione” è il loro slogan a Londra 2012 .Record, medaglie e sponsor: Bolt ha fatto capire che chi corre la velocità produce affari. Lui è Puma, che gli versa 10 milioni di euro l’anno per non farselo scappare. Blake è Adidas, Powell è “firmato” dal marchio asiatico Li Ning. E Dexter Lee, due volte campione mondiale junior dei 100 metri, è il sesto atleta messo sotto contratto dalla “361”, nuova compagnia cinese, che ha già le ostacoliste Foster-Hyltone Ruddock, gli sprinter Frater e Roach e Robertson dei 400 ostacoli. Nessuno prima di Bolt, se non Bob Marley con la musica, era stato capace di avere una scia così lunga. Grace Jackson, argento nei 200 metri ai Giochi di Seul, ora vicepresidente della federazione giamaicana, parla come fosse a Wall Street: «Bolt ci ha fatto entrare nel mercato. Ma ora dobbiamo riposizionare il nostro prodotto, dargli più valore. Abbiamo pochi mezzi, ma da gennaio all’estate in Giamaica organizziamo due meeting di atletica a settimana. E ogni volta facciamo correre 2.300 persone, mosse da un forte senso di emulazione. Non tutti arrivano, ma abbiamo ampio materiale da selezionare». Eccolo il modello. Yes, he can. Usain Bolt è il replicante dei record. Il ragazzo nato con la scoliosi e che ha la gamba destra più corta dell’altra, ha sbranato i 100 metri, promette di ripetersi giovedì nella finale dei 200, e con i suoi compagni dovrebbe dominare anche la staffetta. Ha trasportato l’atletica nel futuro, l’ha rivitalizzata e fatta volare. «Nella mia testa – ha detto alla fine, spaccone come sempre – non ho mai avuto alcun dubbio che sarebbe andata a finire così. C’era un’atmosfera fantastica: sono scivolato ai blocchi, ma ho pensato solo al traguardo e questa è stata la chiave. Non posso promettere che farò il record sui 200 metri ma quella è la mia gara preferita…». Dice che vuole «diventare più serio», ma non ci riesce. Bolt piace perché è teatro, gestualità, bersaglio da flash fotografico. Non ha la tortuosità di Mennea, la leggerezza di Carl Lewis, la meccanicità di Michael Johnson. Ride mentre frantuma i secondi. Sfreccia e si rilassa. Vince e danza. Esige il coinvolgimento. A 26 anni guadagna duemila euro al metro. Il suo segreto: pollo fritto a pranzo e a cena, ed essere nato a Trelawny, Giamaica. Dove cresce il seme della velocità perché devi arrivare in fretta a casa, se non vuoi passare guai.
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