martedì 7 giugno 2016
Boiardo, il poeta fa politica
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Quest’anno il centenario della prima edizione dell’Orlando furioso (1516) celebra Ludovico Ariosto ma con lui anche Matteo Maria Boiardo, perché Ariosto ne riprese l’Orlando innamorato(L’inamoramento de Orlando), dal punto dove il suo autore lo interruppe nel 1494 prima di morire: l’ottava famosa che con la discesa di Carlo VIII annuncia un mutamento epocale nelle sorti d’Italia: «Mentre che io canto, o Dio redemptore,/ Vedo la Italia tutta a fiama e a foco/ Per questi Galli, che con gran valore/ Vengon per disertar non sciò che loco». Boiardo non è uno spettatore. Fino agli ultimi giorni governa Scandiano scrivendo a Ercole d’Este in un crescendo di delusioni e tormenti. È un uomo di Stato che come il nonno Feltrino aderisce al progetto di corte degli Este. Sostiene il ramo di Borso che nomina erede il fratellastro Ercole, figlio legittimo di Niccolò III, contro Niccolò, che avrebbe dovuto riprendere la signoria del padre Leonello. La sua opera è fulcro del complesso sistema culturale di cui Schifanoia è esempio visivo a Ferrara (1467-1470), come a Rimini lo è il tempio di Sigismondo Malatesta (1417-1468). Esistono molti motivi per ricordare Boiardo, a partire dal fatto che è un poeta straordinario, sia per la sua intensissima vena lirica, sia per l’imbattibile forza dell’immaginazione. Però occorre sbarazzarsi di pessime abitudini, nate proprio subito dopo di lui. Sebbene fosse stato riconosciuto dai più giovani contemporanei come un maestro, unico per la versatilità in tutti i generi (e la scelta di Ariosto lo conferma, perché gli deve la sua ispirazione), la trasformazione dei tempi l’ha colpito fino a oggi. Calvino, cui dobbiamo un elegante racconto del poema di Ariosto, ne scrive: «L’Orlando Innamorato […] è un poema dalla versificazione rozza, scritto in un italiano incerto e che sconfina di continuo nel dialetto. […] dalla ruvida scorza quattrocentesca il Cinquecento esplode come una lussureggiante vegetazione carica di fiori e di frutti». Francesco Berni volle tradurlo e 'migliorarlo' già nel 1527, subito dopo le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo che sancivano il primato del fiorentino di Petrarca e Boccaccio (più che quello di Dante). Ma non era solo questione di lingua e purismo. Insieme ai suoi esempi elitari nelle corti, la tradizione simbolica legata alla philosophia perennis – rappresentata fra l’altro anche da un cugino di Boiardo, Pico della Mirandola – aveva perso e prendeva altre strade. Con l’unità d’Italia Francesco De Sanctis indicò poi la linea: via l’Italia delle diversificazioni e dei dialetti. Carducci e la scuola storica bilanciarono la tendenza, mentre dal dopoguerra la passione per la poesia dialettale portata all’eccesso ha rilanciato campanili e mediocrità. Infine l’insensata contrapposizione tra scrittori (Dante-Petrarca, Ariosto- Boiardo, Manzoni-Leopardi) ha fatto il resto. Possibile che non si debbano leggere dando a ciascuno il suo valore nel proprio ambito e nelle loro mutue relazioni? La loro varietà e ricchezza corrisponde a quella del paesaggio italiano. Se alla morte di Boiardo il pericolo veniva da oltralpe, durante la sua vita proveniva dalle guerre tra le signorie italiane (quella rovinosa tra Ferrara e Venezia 1482-1484, dove con la pace di Bagnolo Alfonso d’Aragona lascia che il Polesine sia perduto per il cognato Ercole), oltre che dalla minaccia di Maometto II, che prende Costantinopoli nel 1453 e dopo l’eccidio di Otranto risalirebbe l’Italia, se non morisse (1481). Intorno alla figura di Ercole I – che ricalca le imprese dell’eroe, esemplate nella lotta all’idra dalle profonde valenze – dal 1463 Boiardo inizia una costruzione di sé come Orfeo, la cui poesia civilizzatrice doma le forze selvagge. Virgilio, come già in Dante, offre il modello, anche nel ruolo di sostenitore di Augusto. Dalle Bucolichein latino Pastoralia1463-’ 64, i Carmina in Herculem, gli Epigrammata( e precedenti opere perdute), alle Pastorale in volgare 1482-’84, Boiardo persegue un genere intriso di storia e politica con cui le pastorellerie d’Arcadia non hanno niente in comune. Marco Santagata lo dimostra in Pastorale modenese. Boiardo, i poeti e la lotta politica (il Mulino, pp. 231, euro 23), esemplare microstoria dagli esordi di Boiardo a Modena di cui nel 1463 Ercole è diventato signore. Individuando persone e luoghi sotto i noum mi fittizi e i cenni geografici delle Bucoliche e dei versi latini fino allo spartiacque politico-poetico del 1471 con il Canzoniere e la ripresa bucolica del 1482, Santagata ricostruisce le alleanze tessute da Boiardo nel suo ambito d’origine, insieme alle famiglie degli zii Tito e Lorenzo Strozzi e ai loro amici, primo nucleo della futura corte di Ercole, dove spiccano Bartolomeo Paganelli di Prignano, Gaspare Tribraco, e altri meno noti. L’investigazione è in sé ricca di sorprese. Illumina i moventi della fertile tessitura degli umanisti, dediti alla poesia e agli studi, e insieme impegnati politicamente in un progetto culturale a tutto tondo. Santagata amplia il raggio, mostrando come i rapporti con Napoli furono importanti per l’influenza che Boiardo gettò sui letterati napoletani da Sannazzaro a De Iennaro, da Giovan Francesco Caracciolo a Cariteo e Rustico Romano, sullo sfondo politico della Congiura dei baroni, promuovendo un «viavai di testi» che è stato «il canale più importante per la diffusione della bucolica volgare nel Quattrocento». Boiardo è un mondo da scoprire. Nella sua completezza lo presenta Tiziano Zanato a distanza di quasi cent’anni dalla monografia di Giulio Reichenbach (1929), con i frutti di un aggiornamento filologico di cui egli stesso è protagonista, soprattutto per le eccellenti edizioni degli Amores o Amorum libri 1469-1476/’77, che sono una delle vette della lirica non solo quattrocentesca ( Boiardo, Salerno, pp. 414, euro 21). Zanato dedica il suo Boiardo alla bella memoria di Giuseppe Anceschi (1936-2014): la sua passione ha creato nel 1969 il Centro di Scandiano, che con le edizioni di Interlinea pubblica i maggiori studi e le edizioni critiche delle opere (si attende da Andrea Canova quella dell’Inamoramento, che seguirà l’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani del 1999, e la sua stessa del 2011). Zanato dedica capitoli puntualissimi a ogni opera, con contributi nuovi. Tutto – anche i volgarizzamenti (1467 1478 da Senofonte, Cornelio Nepote, Riccobaldo, Erodoto, Apuleio), il teatro (le trasposizioni da Plauto, l’Orphei tragoedia, il Timone da Luciano), le Carte de triomphi ( Tarocchi) – compone un sistema unitario ideale e reale nella dimensione pubblica della corte, e confluisce nell’immenso mappamondo dell’Inamoramento, la più sterminata opera di fantasia simbolica. L’idea virgiliana che « Omnia vincit amor », «l’amore vince ogni cosa», inanella imprese senza fine nel gioco della Fortuna da cui occhieggiano rifrazioni di esperienze, disillusioni, amarezze, morali bagnate di ironia e di sprezzatura sovrana. Nessuno ha posseduto più la potenza inventiva di quest’uomo pratico che traduce nella poesia lo spirito non utopistico con cui si occupa del suo feudo amministrando terre, canali, fiere, componendo liti, difendendo umili ed ebrei, proteggendo dai soprusi sé e gli altri in tempi di scarsi diritti. Boiardo non pronuncia parole come quelle di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta »; né come Petrarca lamenta le piaghe mortali inferte dalle guerre fratricide nel corpo d’Italia. Pur senza utopie di unità nazionale, coltiva però gli stessi ideali dei predecessori nella civiltà umanistica dove riconosciamo la forza innovativa della nostra tradizione. Passano pochi anni, e Ariosto non si proietta più nell’Italia contemporanea attraverso lo Stato estense. Dovrà fare suo l’atteggiamento del distacco proprio dei filosofi che assumono l’obiettivo di Aristotele all’interno dello Stato: occuparsi della contemplazione del bene. Per lui resta la letteratura, che assorbe ogni altro mito.
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