venerdì 23 settembre 2022
Il filosofo scomparso tre anni fa assimilava il poeta al personaggio biblico e lo considerava il più grande pensatore italiano dell’800. Un libro ne raccoglie i saggi e le conferenze
La statua di Giacomo Leopardi a Recanati

La statua di Giacomo Leopardi a Recanati - archivio

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In un dialogo svoltosi al Festival della filosofia di Modena nel 2008, Remo Bodei e Franco Cassano - due intellettuali che ci mancano moltissimo, per l’acutezza della loro analisi sul nostro Paese e per la libertà con cui provocavano il pensiero cristiano si interrogarono su Giacomo Leopardi a partire dal tema della siepe: ostacolo alla capacità dell’uomo di vedere oltre e insieme molla dell’immaginazione. Bodei mise subito in rilievo come, parlando del genio di Recanati, si debba riconoscere in lui non solo un immenso poeta ma anche un grandissimo filosofo, il più importante che l’Italia abbia avuto nell’800. Capace come nessun altro di esprimere la percezione tragica della nostra presenza nel mondo e la sensazione di sgomento dinanzi all’immensità di un universo che ci sovrasta: «Ecco allora che per Leopardi L’infinito finisce con un naufragio». La dimensione di contemplazione che spalanca l’immaginazione fu evidenziata anche da Cassano, ma entrambi, interpellati a proposito della questione religiosa in Leopardi, non poterono esimersi dal sottolineare il suo ateismo: non è il Dio cristiano quello a cui il poeta guardava interrogandosi sul senso dell’esistenza in testi poetici come Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia o Il pensiero dominante. Un tragitto messo in luce dai vari studiosi che nei decenni scorsi hanno voluto indagare l’opera di Leopardi dal punto di vista filosofico, rileggendo non solo l’opera poetica ma anche quella più saggistica, quale emerge in particolare nello Zibaldone e nella corrispondenza. Da Severino a Luporini a Rigoni, preceduti da Rensi e Tilgher, è il Leopardi nichilista e materialista che emerge con tutta la sua forza. Ma sono interpretazioni valide? Non del tutto così la pensava Remo Bodei, di cui ora da Mimesis esce il volume Leopardi e la filosofia (a cura di Gabriella Giglioni e Gaspare Polizzi; pagine 146, euro 14,00), che raccoglie testi di conferenze, alcune delle quali inedite, del filosofo che ci ha lasciato nel 2019. Se per Bodei è vero che nel poeta di Recanati non bisogna cercare alcuna proclamazione di assoluti, poiché più volte egli esclude la possibilità di un principio ordinatore del cosmo e di una giustificazione metafisica delle azioni umane, è sbagliato farne una sorta di Nietzsche italiano. «Leopardi è qualcosa di più», rispetto all’idea di un «Leopardi nichilista che vuole il nulla» o a quella, «diffusa nei manuali, del pessimismo cosmico ». Allo stesso modo, Leopardi non è né un irrazionalista né un progressista: «In una fase più tarda del suo pensiero poetante, egli vuole piuttosto completare e oltrepassare l’illuminismo interrotto dal 'secol superbo e sciocco' attraverso un’ultrafilosofia». Che non è altro che la prosecuzione della filosofia con altri mezzi, vale a dire la poesia. «Job del pensiero italiano»: così Carducci definì Leopardi; e in qualche modo anche Bodei si ritrova in questo giudizio critico che lo accosta a Giobbe. La condizione di infelicità dell’uomo, proclamata così spesso dal poeta, come può allora essere superata? Inevitabile il richiamo alla Ginestra e all’invito all’unione fra gli uomini per resistere al male, che provenga dalla natura o dall’uomo stesso, superando l’individualismo e la fiducia cieca nella scienza e nel progresso. Ancora una volta: posizione orientata verso il nichilismo o in qualche modo religiosa? Bodei lascia il campo aperto, preferendo indicare la strada di un umanesimo che non si arrende davanti al male e che può essere abbracciato da credenti e non credenti. E richiamandosi in più occasioni, sulla scia di Leopardi, a Pascal e alla sua definizione di «canna pensante», in cui consistono la dignità e la nobiltà dell’uomo, senza dimenticarne il noto grido: «Le silence eternel de ces espaces infinis m’effraie». La questione religiosa in Leopardi non è certamente chiusa, come hanno rilevato il filosofo Antimo Negri nel volume Leopardi. Un’esperienza cristiana (Edizioni Messaggero Padova 1997) e ancor prima il mistico Divo Barsotti in La religione di Giacomo Leopardi (Morcelliana 1975, ripubblicato dalle edizioni San Paolo nel 2008). Negri ridimensiona la leggenda di un Leopardi irrimediabilmente ateo e nichi-lista, mentre Barsotti ne parla come del «testimone più alto in Italia della crisi religiosa dell’uomo moderno». E aggiunge: «È proprio nel dolore del mondo e nell’umiliazione dell’uomo che, nonostante tutto, Dio si fa presente nella poesia leopardiana. Non è contro Dio che si coalizzano gli uomini nel canto La ginestra, ma contro il peccato del mondo». Il suo era semmai un rifiuto del cattolicesimo per come si presentava ai suoi occhi, una presa di distanza dal formalismo e dal bigottismo della Chiesa del tempo, così come dal cristianesimo estetico di Chateubriand, da quello liberale di Manzoni e da quello tradizionalista di suo padre Monaldo. Conclude Barsotti: «La grandezza di Leopardi è qui. È un cristiano che non sa credere in Dio. Egli cerca un interlocutore ma non lo trova. Di fatto né l’ateo né il credente, senza arbitrarie annessioni, può dire che Leopardi abbia preso una posizione definitiva e assoluta riguardo alla fede religiosa».

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