mercoledì 30 agosto 2017
Cristina Battocletti rilegge il multiplo e discordante “mito” del mentore degli editori
Bobi Bazlen nella copertina del libro pubblicato da La Nave di Teseo

Bobi Bazlen nella copertina del libro pubblicato da La Nave di Teseo

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Si sa: prima nascono le leggende. Poi, se perdurano, magari anche radicandosi e rafforzandosi, giunge, implacabile e certosino, il lavoro critico e storico-documentario. Questo momento è arrivato anche per Robert Bazlen, noto meglio come “Bobi”: grazie al notevole libro di Cristina Battocletti, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste( Pagine 336. Euro 19,00) che approda domani in libreria per La Nave di Teseo: la quale ha lavorato profittevolmente negli archivi e negli epistolari in gran parte inediti, consultando tutto il consultabile, restituendoci infine il ritratto di Bazlen entro pagine davvero accattivanti, narrativamente avvincenti e di rara e limpida eleganza. Nato a Trieste il 9 giugno 1902, da padre tedesco e madre ebrea, formatosi a contatto con la migliore intelligenza residente o di passaggio in città (Italo Svevo, Umberto Saba, James Joyce, Giani Stuparich, lo psicanalista Edoardo Weiss, il più giovane sodale Pier Antonio Quarantotti Gambini), poi fondatore insieme a Luciano Foà di Adelphi nel 1962 - tre anni prima di morire - in anni difficilissimi di egemonia storicistica (lui che, ai miti greci, preferiva quelli assiro-babilonesi e indù, all’Occidente illuminista l’Oriente e il taoismo), e consulente di altre importanti case editrici (tra le quali: Astrolabio, Bocca, Bompiani, Boringhieri, Edizioni di Comunità, Frassinelli, Guanda e Einaudi), Bazlen, che Daniele Del Giudice ha immortalato nel romanzo d’esordio Lo stadio di Wimbledon (1983), è stata figura tanto centrale quanto discreta della storia della cultura italiana del Novecento, non solo editoriale, per la carismatica influenza esercitata ad ampio raggio e in profondità, di contro al pochissimo che, in vita, volle invece affidare ai lettori: se è vero, appunto, che i suoi libri dalle Lettere editoriali (1968) alle Note senza testo (1970), da Il capitano di lungo corso( 1973) al ricapitolativo Scritti (1984)- sono apparsi tutti postumi per la cura altrui. Al fine di capire che tipo d’uomo e d’intellettuale sia stato, basterebbe rapidamente accennare al “'caso Svevo”, del quale fu propiziatore, inviando a Montale, che della Coscienza di Zeno mirabilmente scrisse, i tre romanzi di quell’Ettore Schimtz il cui nome non aveva di fatto mai varcato i confini triestini: con la non irrilevante avvertenza che allora Bobi Bazlen, a fronte dei sessantacinque di Svevo, aveva solo ventitré anni e mezzo.

Una domanda s’impone: che debito abbiamo davvero - dico noi italiani - con Bobi Bazlen? Con un uomo che è sempre rifuggito da un lavoro che lo limitasse nella libertà, il quale è vissuto da nomade e senza proprietà, cui bastavano, per vivere bene, almeno una donna da amare (bello il capitolo di Battocletti sugli amori giovani-li), sigarette e lettere da spedire? A un uomo inviso, se non temuto, per la sua perfidia, esperto in intrighi sentimentali tramati in spazi strettissimi, come quando nello stesso tempo «spingeva, di nascosto da Gerti, la fidanzata Duska nelle braccia di Carlo, sperando così di aver campo libero con una terza donna ancora, Linuccia Saba, per cui aveva perso la testa»? Laddove Gerti è Margarete Frankl, una delle muse di Montale, mentre Carlo è il futuro autore di Cristo s’è fermato a Eboli (1945), che in amore, appunto, l’ebbe alla fine vinta, su Bazlen, con la figlia di Saba. Dobbiamo a Bazlen almeno, e come minimo, la scoperta di alcuni libri e autori fondamentali. Di Kubin e Kafka, per cominciare: che fu il primo a far tradurre. Di Musil (come sopra), che riuscì a far pubblicare da Einaudi, nonostante il diniego drastico e molto autorevole di Norberto Bobbio e Delio Cantimori. Di Jung, che promosse in ogni modo, in un contesto come quello italiano allora ostile alla psicanalisi, e che era poco amato anche dall’ortodossia freudiana. Ma Bazlen, oltre che di Quarantotti Gambini, fu pure consigliere ascoltato e complice compagno di strada di Eugenio Montale e Saba, malgrado i giudizi assai maligni che sempre diede su quest’ultimo. Così a Stelio Mattioni: «un egoista, che aveva tutti i difetti del poeta senza averne i pregi». E ancora: «privo di gusto, arretrato, incolto perché si limitava a leggere i libri che aveva in libreria senza creare un suo percorso specifico». Infine: «monomaniaco, per niente intelligente, tranne nel suo lavoro specifico di poeta».

Ho citato Carlo Levi: il quale, per via di Saba o della di lui figlia Linuccia, è più volte ricondotto da Cristina Battocletti a Bazlen. Ecco, se volessi giocare a ritrarre Bobi Bazlen al modo plutarchiano delle biografie parallele è proprio Carlo Levi che chiamerei in causa: quel Levi che, per una qualche congiura delle stelle (Bazlen aveva una spiccata sensibilità astrologica), è nato nel medesimo 1902, pochi mesi dopo, a novembre. Non per niente, come ricorda la stessa biografa, Carlo Levi fece di Bazlen un personaggio significativo d’uno dei suoi libri più belli, L’Orologio (1950). Sto parlando di Martino: tutto concentrato sull’Oriente e la sua simbologia, ovvero, per dirla con Levi stesso, sui «ghirigori delle evasioni, delle ricerche, delle religioni, delle eresie», mentre -ora è Cristina Battocletti che scrive- «come una specie di ragno» cinge «d’assedio le anime, soprattutto femminili, con elucubrazioni intellettuali». Carlo Levi versus Bobi Bazlen, insomma. Il primo: esponente di punta di quegli scrittori razionalisti votati alle magnifiche sorti e progressive del popolo, orgogliosamente engagé, sino ai limiti del populismo. Il secondo: sciamanico ed eclettico esploratore di tutte le culture “altre”, nello spazio e nel tempo, sino ai limiti del sincretismo, che avrà in Roberto Calasso il suo vero erede, a fare dell’Adelphi l’inconfondibile casa editrice che oggi è. Resterebbero solo da segnalare le eccellenti pagine in cui Cristina Battocletti non si ferma a Bazlen, ma ne ricostruisce il multiplo e talvolta discordante mito, raschiandone tutte le incrostazioni, e usandolo come cartina tornasole d’un significativo capitolo della storia della cultura italiana del secolo scorso.

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