sabato 18 giugno 2011
L’ex campione della Ignis Varese è tornato in Italia nella nuova veste di professore per una lezione universitaria sullo sport negli Usa. «Ho preferito Varese alla Nba. I ’70 erano gli anni
di piombo, ma per il basket italiano sono stati d’oro».
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È tornato in Italia Bob Morse, ma questa volta non va a canestro. Dall’alto dei suoi 203 centimetri, il leggendario campione americano della Ignis Varese sale in cattedra: quella dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Del resto, per chi non lo sapesse, nella sua «terza vita» (dopo quella di cestista e commentatore televisivo di basket) è docente di lingua e letteratura italiana («la quarta più studiata nelle università Usa») al Saint Mary’s College di Notre Dame, nello stato americano dell’Indiana. Prima di tuffarsi in una fantastica lezione di due ore con i ragazzi del “Master Sport Management Marketing&Sociology”, diretto dal professor Franco B. Ascani, l’ex biondo Bob è voluto tornare sul suo «lago dorato», quello di Varese. «Sono stato lì quattro giorni per rivedere quei luoghi che porto sempre dentro di me e per riabbracciare tutti, i tifosi della Ignis e Guido Borghi». La famiglia Borghi allora proprietaria della società varesina nell’estate del 1972 aveva preso in prova quel ragazzone nato e cresciuto nella campagna della Pennsylvania. «Avevo 21 anni quando sono arrivato - racconta Morse ai 25 studenti del Master della Bicocca - . Ero fresco di specializzazione universitaria in biologia con indirizzo ecologico. L’idea era fermarmi un paio d’anni in Italia e poi tornare negli States per concludere gli studi e invece sono rimasto a Varese fino al 1981, giocando in quella che era la squadra più forte d’Europa, allenata da Aza Nikolic». Un americano a Varese, potrebbe essere il film della bruciante gioventù del professor Morse che negli anni in cui nel nostro Paese imperversava il terrorismo, in campo, con la focosa Ignis, viveva esperienze forti e collezionava titoli (in nove anni: 4 scudetti, 3 Coppa dei Campioni e un titolo mondiale per club). «A un certo punto i tifosi varesini mi dicevano: “Ehi Bob, tu qui in Italia hai trovato l’America”. Avevano ragione - sorride - . Mentre i ’70 sarebbero passati alla storia come gli “anni di piombo”, per il sottoscritto e anche per la pallacanestro italiana erano anni d’oro. Una città di appena 80mila abitanti trionfava in Europa battendo metropoli come Mosca (Armata Rossa), Madrid (Real) e Tel Aviv (Maccabi). Perciò non ho mai avuto rimpianti per non essere diventato un giocatore della Nba, nonostante i Buffalo mi avessero scelto nel draft, ma come n° 33, mentre il mio amico Bob McDoo era n° 3». Se la ride, in prima fila con gli studenti, l’ex ct azzurro Sandro Gamba che ha allenato Morse dal 1973 al ’77. «A un certo punto non potendo più sopportare Bob come avversario, da Milano passai a Varese. Ma posso assicurare che ogni anno all’inizio della stagione della Nba, da Buffalo telefonavano per chiedermi se convincevo Morse a tornare in America: “Così - dicevano - con lui vinciamo il titolo”». Ringrazia emozionato il suo vecchio coach e con un italiano sicuro Morse riprende l’interessante lezione sul “Sistema sportivo statunitense” spiegando ai ragazzi dell’«autonomia delle 4 leghe nazionali di basket, baseball, football americano e soccer». Delle incredibili differenze di gestione del marketing delle società: «Negli Stati Uniti si acquistano perfino le licenze per la rivendita degli abbonamenti allo stadio e si arriva a sborsare anche 100mila dollari per prenderle. Per noi in Usa poi, è impensabile che una finale per il titolo nazionale di basket riguardi due città come Siena e Cantù che insieme arrivano a 100mila abitanti, quando per ogni franchigia della Nba, la media è di 4,7 milioni di abitanti». Il professor Morse passa poi in rassegna la bontà dei campionati universitari americani e di come si sia evoluto anche il sistema del basket italiano. E su questo tasto, è inevitabile la schiacciata d’amarcord. «All’epoca il vostro regolamento federale prevedeva che un giocatore straniero non potesse essere ceduto, se non a una società neopromossa. Così decisi di andare a giocare in Francia, ad Antibes, per poi tornare a chiudere la mia carriera alle Cantine Riunite Reggio Emilia». Anni buoni, ma quelli di Varese restano memorabili. «Ricordo la crisi energetica e le domeniche senza auto in cui arrivavamo al palazzetto di Varese con l’autobus di linea. Il vaccino anticolera prima di una trasferta a Napoli e poi la diossina a Seveso e l’attentato a Fiumicino in cui morirono trenta cittadini americani...». Si ferma un attimo il grande Bob, poi riprende: «In mezzo a tutto questo, la piccola Varese batteva in Coppa Campioni l’Armata Rossa e in piena “guerra fredda” capirete che per un giovane americano aveva un significato importante... Sono sempre stato molto attento alle evoluzioni storiche e sociologiche legate allo sport. Nel 1947 Jack Robinson fu il primo giocatore afroamericano di baseball a militare nella Major League, nei Dodgers. L’Nba nata nel 1949 è cresciuta al punto da diventare negli anni ’80 un fenomeno planetario. E grazie a Michael Jordan, la pallacanestro americana è sbarcata fino in Cina. Oggi quando c’è una partita del loro campione Yao Ming (degli Houston Rockets) 100milioni di cinesi si fermano, incollati davanti alla tv. Il basket come il football americano sono sport certo, ma anche un’industria che produce grandi introiti». Dello sport però Morse continua ancora a credere nella «capacità di trasmettere emozioni e nella forza che ha, «soprattutto il basket», nell’abbattere ogni forma di discriminazione razziale e sociale. Il basket ha reso l’ex biondo americano di Varese un uomo più forte, allenato a ogni tipo di sfida, compresa quella contro una grave malattia che ha sconfitto «grazie alla fede in Dio» e con la grinta dell’eterno combattente sotto canestro. «Quando stavo male, navigando su Internet vidi la foto dei tifosi con uno striscione con su scritto: “Bob tutta Varese è con te”. Fu un tonfo al cuore». Lo stesso che hanno provato ieri gli studenti del Master, quando sullo schermo dell’aula della Bicocca, il gigante buono d’America ha proiettato la foto di uno dei tanti “blocchi” del suo ex compagno di battaglie Dino Meneghin (oggi presidente della Fip). Poi, lentamente si è alzato dalla cattedra e con gli occhi ha abbracciato uno per uno i ragazzi: «Bene, la lezione finisce qui». Ben tornato Bob, arrivederci professor Morse.
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