domenica 24 settembre 2017
Alla Casa dei Tre Oci di Venezia un'antologica sul fotografo svizzero, membro della Magnum, scomparso nel '54 sulle Ande. Denis Curti: «Era un uomo assoluto. Nelle sue foto l’essenza delle cose»
Gli scatti di Bischof: cercando il cuore degli uomini
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«Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda. Non che egli sia assorto nella contemplazione delle onde. Non è assorto, perché sa bene quello che fa: vuole guardare un’onda e la guarda». Un libro lasciato su un muretto di una calle dell’isola della Giudecca e bagnato dai flutti della laguna, regala la suggestiva e inaspettata visione di Italo Calvino ( Palomar, 1983). Un libro dal profumo di mare dimenticato o – perché no? – volutamente lasciato lì da un viaggiatore solitario che come Palomar cerca la sua strada: «Potremo mai trovarci in pace con l’Universo? Il signor Palomar è tutt’altro che sicuro di riuscirci. Ma se non altro continua a cercare la strada».

Anche Werner Bischof gira il mondo, cerca la strada. Guarda l’onda e la racconta. Con la precisione di chi non si fa sfuggire mai un dettaglio. Ossessionato dal dovere della verità e dalla forza della testimonianza. Le onde della baia di Kowloon a Hong Kong (1952) o delle isole greche (1947). Ma soprattutto le “onde umane” che attraversano e abitano le tante terre del mondo: i volti di speranza fra le macerie di Varsavia (1948), il giovane pastore di Hidalgo in Messico (1954), i bambini che a Hiroshima salutano l’imperatore Hirohito (1951), la carovana di operai della valle del Damodar in India (1951). Dall’Europa del dopoguerra, fra devastazione e miseria, al fascino dell’Estremo Oriente, dalla «brutalmente fredda» New York fino alle “sue” appassionate Ande, lì dove nel maggio del 1954, a solo 38 anni, morirà in un incidente stradale mentre si dirigeva verso una miniera in alta quota. È di quell’ultimo viaggio uno dei suoi scatti più celebri, il bambino che suona il flauto nella strada per Cuzco, in Perù, scelto come “manifesto” della grande antologica che la Casa dei Tre Oci di Venezia (accompagnata dal volume Backstory, aperture) dedica al leggendario fotoreporter svizzero, membro dell’agenzia Magnum dal 1949, due anni dopo la sua fondazione a opera di Henri Cartier- Bresson e Robert Capa (quest’ultimo morto in Indocina in una sfortunata coincidenza proprio nove giorni dopo Bischof).

© WERNER BISCHOF/MAGNUM PHOTOS


Italia. Genova, 1946

Fino al 25 febbraio (tutti i giorni dalle 10 alle 19, chiuso il martedì), 250 foto di Werner Bischof scattate fra il 1934 e il 1954 guideranno il cammino di chi vorrà «guardare l’onda». Immergersi in una memoria fotografica che restituisce la storia e racconta percorsi di umanità infinita. «Bischof concepisce la fotografia lontana dai sensazionalismi degli scoop e più vicina a cogliere l’essenza delle cose, la profondità che si cela oltre la superficie, e le persone, le loro storie, i loro sentimenti, la normalità nelle situazioni estreme di difficoltà », dice Denis Curti, direttore artistico dei Tre Oci. Il mondo di Bischof è grande. Il primo viaggio è nel 1945, quando lascerà la Svizzera per raggiungere in bicicletta la Germania meridionale e documentare i danni causati dalla guerra. Dopo sarà in Francia e in Olanda, insieme a Emil Schulthess. Poi toccherà all’Italia, nel 1946, in visita fra le diverse sedi dell’ente assistenziale Don Suisse. In mostra sono esposti per la prima volta venti scatti che raccontano la bellezza e i contrasti del nostro Paese: i bambini in strada a Napoli e a Genova, le donne della Sardegna, fino al dinamismo dell’affollata Piazza Duomo a Milano. Proprio lì dove Bischof incontra l’amore: Rosellina Mandel, che diventerà poi sua moglie.

I racconti di Bischof continuano in Polonia, con spaccati toccanti di Varsavia, prima di spostarsi più in là, in quell’Oriente dal richiamo irresistibile. Il Giappone, in particolare, è un campo di osservazione straordinario per la sua macchina fotografica: attratto dai paesaggi e dall’architettura, dallo spazio, l’arte, il colore di una terra in equilibrio perfetto fra forma e contenuto, Bischof realizzerà qui immagini “zen”. Come il volto della studentessa di moda Michiko Jimuna mentre guarda fuori dal treno, o il cortile innevato del santuario Meiji di Tokyo. Pura poesia. A dare forza a questa mostra è anche il tipo di fotografie esposte. Stampe “originali”, così come le pensò e le consegnò ai giornali lo stesso Bischof. «Foto in larga parte vintage – aggiunge Curti – che restituiscono al meglio il messaggio che il fotografo voleva trasmettere all’osservatore ». Bischof si è sempre rifiutato di cedere alla censura e aveva un atteggiamento fortemente critico nei confronti dei media. Anche se i suoi scatti finivano su riviste del calibro di Du o Life e in Italia Epoca. «Seguiva con una passione meticolosa i servizi giornalistici, i titoli e le didascalie – prosegue Curti –. Era consapevole già allora che il fotogiornalismo stava cambiando: venivano richieste più azione e meno spiegazione, più scoop e meno analisi ». Da qui lo sfogo in una delle sue frasi più forti, posta non a caso all’ingresso della mostra veneziana: «Io non sono un fotogiornalista. Purtroppo non ho alcun potere contro questi grandi giornali, non posso nulla, è come se prostituissi il mio lavoro e ne ho davvero abbastanza. Nel profondo del mio cuore io sono sempre – e sarò sempre – un artista».

© WERNER BISCHOF/MAGNUM PHOTOS


Hong Kong, porto di Kowloon, 1952

Un artista che a dispetto della sua convinzione unisce «tutte le qualità del fotoreporter a quelle del cronista analitico. E in ogni sua storia si concentra su ciò che accade ai margini». Il suo compagno di agenzia Ernst Haas, lo definisce «uomo assoluto». Come la profondità del suo obiettivo, della ricerca costante dell’umanità, anche fra devastazione e povertà. È nei bambini, nel loro sorriso, in qualunque situazione, che Bischof troverà l’energia del riscatto e del futuro. Lo si avverte nelle fotografie del villaggio di Pisac in Perù o a Città del Messico o negli occhi di un ragazzino su un autobus di New York. Uno sguardo rivolto ai più piccoli, cercando forse gli occhi di suo figlio Marco, avuto da Rosellina, che riusciva a vedere solo di rado, fra un viaggio e l’altro, e che aveva solo pochi anni quando la sua vita si spezzò in quel dirupo (con la moglie in attesa del loro secondogenito). «Una volta ho calcolato che in tutto l’avrò visto sì e no sei mesi – ha scritto Marco Bischof nel volume Werner Bischof edito da Silvana –. Mi dicevano che era dagli Indios e io mi ero fatto di lui un’immagine avventurosa. Dai suoi viaggi mi mandava lettere e disegni bellissimi. Poi è morto, ma per me continuava a essere dagli Indios. Mia madre, scomparsa nel 1986, mi ha sempre raccontato che quando ero piccolo, allora abitavamo a Leimbach, nei pressi di Zurigo, ero sparito di casa. Mi hanno ritrovato alla stazione, volevo andare a Parigi, dove c’era la Magnum, forse là avrei potuto trovare mio padre».


Marco Bischof è il curatore della mostra ai Tre Oci, un percorso pensato insieme all’agenzia Magnum in occasione del centenario della nascita di Werner, lo scorso anno. Giovedì sera Marco non era a Venezia per l’inaugurazione, perché in Perù, ancora sulle orme del padre, nel tentativo di «organizzare anche lì una grande esposizione», spiega Andrea Holzherr, responsabile delle mostre di Magnum Photos. Un viaggio sulle note del flauto suonato da quel bambino sui sentieri sterrati verso Cuzco. Pensando a come sarà stata la sua vita, a quali strade avrà percorso, mentre lo scatto di Bischof campeggia maestoso alle Fondamenta delle Zitelle e invita i viaggiatori di questo tempo a trovare e a guardare la propria «onda». Come il signor Palomar.

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