martedì 11 agosto 2015
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La figura della spia-letterato rappresenta un punto di forza degli apparati polizieschi del regime fascista. A questo proposito, non vi furono soltanto i casi discussi di Ignazio Silone e Pitigrilli. Anche il conte veneziano Giacomo Antonini, figura inafferrabile di critico e agente letterario (arruolato fin dal 1935 quale fiduciario diretto della Polizia politica di Arturo Bocchini) vantò un ricco carniere di prede. Nato nel 1901, Antonini era un poliglotta di madre olandese, disinvolto nelle sue frequentazioni internazionali: un candidato ideale per le strutture repressive dello Stato mussoliniano, che lo trasformarono in un pungiglione mortale, per delicate operazioni 'a largo raggio' compiute sul versante estero e su quello interno. Grazie a lui, il regime poté tenere d’occhio don Sturzo a Londra, e avventarsi sulla sola organizzazione antifascista che, nel 1937-38, poteva ancora temere (dopo che le altre, quella comunista in testa, si erano lique-fatte): Giustizia e Libertà. La tentacolare macchina poliziesca del Duce aveva dedicato gran parte degli anni Trenta a smantellare l’unica, vera centrale di resistenza al sistema, che era sopravvissuta al martello percussore dei 'processoni' davanti al Tribunale Speciale, dopo che gli antifascisti di stampo democratico erano andati a formare la stremata colonia dei fuorusciti in Francia. Nel ’37, l’unico capo dell’antagonismo antisistema, era Carlo Rosselli, che si macerava in fumosi piani di tirannicidio. Antonini riuscì a carpire la sua fiducia, finendo ricompensato con incarichi di notevole rilevanza. Eliminato Rosselli, assassinato in Francia con il fratello Nello, bisognava ridurre in condizioni di non nuocere la variegata area di fiancheggiamento a 'Gielle', che si annidava negli ambienti letterari. Antonini, che sicuramente simpatizzava per le nuove tendenze artistiche, divenne così l’occhio vigile con cui la Polizia politica sorvegliava tutto quanto si muovesse in quell’inquieta palude. Nell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux di Firenze, si conservano le sue corrispondenze: anche quelle d’anteguerra, che ci interessano maggiormente. In apparenza, si tratta di epistolari di contenuto letterario, ma noi sappiamo che la spia utilizzava i suoi contatti, per censire le posizioni politiche di ciascuno e fotografare ciò che in un determinato ambiente si diceva o si faceva: tutte informazioni che poi trasmetteva a Roma, nelle sue relazioni riservatissime. Tra la documentazione del Vieusseux, vi è anche una significativa lettera di Romano Bilenchi, che prova l’esistenza di un rap- porto amicale tra i due. La missiva, datata 18 agosto 1938, è inedita e recita: «Caro Antonini, grazie per la tua cartolina. Sto scrivendo un romanzo con lo stile del racconto Anna e Bruno. Vedremo cosa verrà fuori. Avrei piacere di ricevere il tuo articolo. I miei libri te li darò a Firenze, perché devo cercarli dagli editori. Io non mi muovo da qui e ci incontreremo in tutti i modi. Fammi sapere a che albergo vai. Io dopo le nove di sera sono sempre alla Nazione. Molti cordiali saluti, tuo Romano Bilenchi». La lettera di Bilenchi faceva seguito a una cartolina postale di Antonini, nella quale, accanto a un giudizio positivo su Anna e Bruno, la spia richiedeva l’invio di due opere dello scrittore senese, Cronaca dell’Italia meschina e Il capofabbrica. Il fiduciario della Polizia politica si rammaricava inoltre di non aver letto la recensione di Anna e Bruno, firmata da Piero Pancrazi, sul Corriere della Sera. Non c’è alcun dubbio: Bilenchi aveva una certa familiarità con l’informatore del regime. Anche se, a onor del vero, non esiste alcuna prova certa del fatto che, al tempo di questa corrispondenza, ne conoscesse l’attività spionistica. Sappiamo, del resto, che Antonini fin dal 1925 aveva cominciato a frequentare i letterati fiorentini, quelli raccoltisi attorno alla rivista dei cripto-rosselliani, Solaria, così come datava da quello stesso anno la sua amicizia con Alberto Moravia. Forse non sapremo mai fino a che punto le notizie confidenziali raccolte da Antonini nel suo vasto giro di amici scrittori abbiano scompaginato le trame degli intellettuali antifascisti più o meno vicini a Giustizia e Libertà. Certo è che i rapporti dell’aristocratico veneziano portarono, per esempio. All’arresto, nel 1939, del poeta Giacomo Noventa. Ed è altrettanto sicuro che erano tutt’altro che disincarnate dalla sua attività occulta, le frequentazioni amicali e letterarie di Antonini con Elio Vittorini e con altre personalità ancora più ondivaghe politicamente, e dunque influenzabili e manipo-labili, come l’ex gobettiano torinese Mario Soldati e Mario Bonfantini. Per non parlare del ben ramificato milieu solariano, a forti venature ebraico-internazionali, di cui erano espressione Lionello Venturi, Alessandro Bonsanti, Giacomo De Benedetti, Alberto Carocci, Nicola Chiaromonte, Aldo Garosci, Carlo Levi. Se dunque Antonini agì come un untore, bisogna però subito aggiungere che le sue informative provocarono differenti esiti, a seconda dei casi: il contenimento e la 'neutralizzazione' di determinate personalità, classificate come le meno pericolose; oppure, al contrario, l’eliminazione degli elementi più nocivi per il regime. Ne sortiva un groviglio inestricabile di delazioni, e di spontanee confidenze, in cui la distinzione tra vittime e carnefici sfuma fino a svanire. Si tratta di un tema difficile anche per gli storici, che faticano a muoversi in un ginepraio irto di contraddizioni. L’illusorio gioco di specchi, nei documenti, rinvia sempre a una realtà 'altra', sfuggente e inafferrabile per definizione, quasi impossibile da decifrare e da definire in modo univoco e definitivo. Questo altissimo grado di sofisticazione operativa contribuì, in modo decisivo, a trasformare la Polizia politica fascista, con il suo braccio armato dell’Ovra, in una delle più efficienti agenzie di spionaggio e controspionaggio che esistessero in Europa allo scoppio della Seconda guerra mondiale, competitiva - per la sua pervasività - con l’Nkvd sovietica e con le varie branche dell’intelligence britannica. Resta da stabilire quale fosse la posizione politica di Bilenchi, al tempo dello scambio di lettere con Antonini. Lo scrittore toscano, nel dopoguerra, fu uno dei più rappresentativi intellettuali organici del Partito comunista. Tentò di retrodatare al 1939 il suo passaggio al marxismo. Versione poco credibile, perché il Pci, a quel tempo, e fino alla seconda metà del ’41, fu 'in sonno', per le direttive del Comintern che proibivano una diretta attività dei comunisti nell’Italia legata alla Germania dal Patto d’Acciaio. L’accordo Ribbentrop-Molotov, infatti, ebbe l’effetto collaterale di anestetizzare la presenza dei partiti dell’Internazionale nel Reich e nei Paesi a esso allineati. Possiamo invece stabilire che, ancora nel ’38, cioè al tempo dei documentati contatti con Antonini, Bilenchi fosse in realtà fascistissimo, come lo era stato fin dalla primissima gioventù. Questi, infatti, con Elio Vittorini e Vasco Pratolini, era ritenuto da Mussolini stesso uno dei prosatori d’eccellenza di quella rivoluzione culturale che egli si attendeva dalle nuove generazioni. L’autore senese, del resto, aveva un curriculum littorio di tutto rispetto, che includeva sussidi, per seimila lire, percepiti a titolo personale con fondi del Minculpop. All’incirca nello stesso periodo, l’Ovra poté contare, per il controllo degli ambienti intellettuali fiorentini, anche sull’opera di Pratolini, che agiva in parallelo con Antonini all’interno di una macchina repressiva organizzata a compartimenti stagni. Intanto, sospinto verso l’alto dalla mano invisibile del favore del Duce, Bilenchi già nel 1931 veniva chiamato da Curzio Malaparte, alla Stampa; nello stesso anno, cominciò a scrivere per il Selvaggio di Mino Maccari. Nel ’34, grazie a una raccomandazione di Galeazzo Ciano, fu assunto alla Nazione di Firenze. Ma è sulle riviste più schierate che la sua firma divenne abituale: dal settimanale del Fascio fiorentino, Il Bargello, all’Universale di Berto Ricci, al Lavoro Fascista. Su Critica Fascista, in particolare, si segnalano due suoi interventi, uno del novembre ’36 ('I nemici della Rivoluzione'), l’altro dell’aprile ’37 ('Fascismo e bolscevismo'). Particolarmente significativo è, fra gli altri, l’articolo intitolato 'Per una coscienza politica ai contadini' che il ventitreenne Romano, nel 1932, scrisse sul Bargello. Vi si legge un panegirico dell’adesione naturale al regime dei lavoratori dei campi, tra i quali, osserva, non vi è nemmeno uno dei condannati dal Tribunale Speciale. Come a dire: i nemici del fascismo sono altrove, in altre classi sociali. Bilenchi insiste però sulla necessità di trasformare quella simpatia spontanea in un legame più profondo e consapevole: «Noi fascisti dobbiamo creare al contadino una coscienza politica, dobbiamo insegnargli la religione dello Stato, la fede in esso sopra ogni altra fede ». Ancora nel 1940, Bilenchi fu invitato da Giuseppe Bottai a collaborare alla neonata rivista Primato:  vien da domandarsi se potesse scrivervi chi non aveva la tessera del partito unico.
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