giovedì 1 settembre 2022
Da Connors a McEnroe, da Agassi a Federer: la storia di un gioco in un volume che si fa leggere non solo dagli "sfegatati" del tennis
Il fuoriclasse svizzero Roger Federer

Il fuoriclasse svizzero Roger Federer - Epa

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Nello stesso tempo in cui Jimmy Connors dominava la scena tennistica, all’improvviso sulla terra rossa, ma anche sull’erba e il cemento, planò come uno smash supersonico, il più irriverente e nevroromantico dei fuoriclasse della racchetta: John McEnroe. Chi era ragazzo nei primi anni ’80, di questo marziano dalla criniera riccioluta schiacciata dalla fascetta in fronte (tutti correvamo a comprarla con il kit polsini del mitico John) ricorda ogni singola movenza, ogni grido rabbioso lanciato a se stesso e al mondo infame che tentava di sabotare la sua ricerca ossessiva della perfezione. Illuminante il titolo del docufilm di Julien Faraut, L’impero della perfezione (1984) che si apre con un aforisma altrettanto radioso del cineasta Jean Luc-Godard: «Il cinema mente. Lo sport no». E che in uno sport come il tennis la finzione sia azzerata lo conferma ampiamente L’ultima scimmia. L’evoluzione del tennis dalle origini dell’uomo a Roger Federer (Hoepli. Pagine 223. Euro 22,90) scritto in “doppio” con bel topspin narrativo da Marco Bucciantini e Federico Ferrero. Uno dei pochi libri di sport in circolazione in questo momento che vale la pena di leggere, in quanto capace di mettere d’accordo gli sfegatati del tennis, i nostalgici della poetica dei “gesti bianchi” – quindi dello scriba massimo Gianni Clerici – e perfino gli ultimi dei darwinisti.

Bello infatti il taglio psicoantropologico de L’ultima scimmia, specie nei capitoli in cui passa in rassegna la “triade Usa” post-Connors: appunto McEnroe, Pete Sampras e Andre Agassi. Partiamo da “Big Mac”, «il tennista più inventivo e dotato di tèchne», sottolineano puntuali Bucciantini e Ferrero. Quella finale del Roland Garros 1984, al centro del doc di Faraut, il perfezionista John la perse al quinto set (allora la più lunga della storia: 5 ore e 10 minuti) contro Ivan Lendl. L’algido cecoslovacco rappresentava l’antitesi al gioco di McEnroe, e quindi l’imperfezione che quel giorno a Parigi condannò alla ghigliottina il tennis perfetto del n.1 al mondo di quell’ultimo quadriennio (1981-’84). «Quella sconfitta completava la riuscita di McEnroe nell’evoluzione del tennis perchè le sue nevrosi uscirono dal personale e si fecero mortali, perdenti. La sconfitta tolse qualcosa alla leggenda e lo restituiva alla terra», cito ancora Bucciantini-Ferrero. Per riprendersi dalla «batosta», l’umano reso troppo umano John, compì un viaggio nella calorosa Italia, ricordando un po’ quel viaggio che adolescente compì il geniale Mozart accompagnato dal padre Leopold nel Belpaese. Ma “Big Mac” a differenza del giovin divino Wolfgang Amadeus aveva già 25 anni e la fama mondiale di fenomeno irascibile e rissoso al limite della volgarità. Per questo Faraut tra le immagini piazza la didascalia di una frase attribuita a Mozart: «Io sarò anche volgare, ma vi assicuro che la mia musica non lo è».

Lo stesso avrebbe potuto dire del suo tennis McEnroe che appese la racchetta al chiodo nel ’92, quando il 21enne Pete Sampras (con cui in quell’ultima stagione aveva vinto la Coppa Davis giocando in doppio), apriva un ciclo d’oro che lo avrebbe portato ad essere il re del mondo per 286 settimane consecutive, (terzo di sempre dietro a Novak Diokovic e Roger Federer). Questo recordman del Grande Slam rappresenta l’evoluzione del gioco d’attacco, grazie anche alla lezione appresa dal coach Peter Fischer che gli ha donato la pozione magica del serve and volley. «Ha una sensibilità incredibile, che gli permette di concludere con tenerezze dopo violente bordate », Sampras stratega di campo della «guerra lampo, la guerra umanitaria, la guerra giusta», ovviamente quella pacificamente sportiva a cui assistiamo ancora sui campi di tennis. Chi prima di arrivare a vincere quella “guerra” ha dovuto combattere sul ring famigliare è stato Andre Agassi, figlio del pugile olimpico Emanoul “Mike” Aghasi, nato armeno poi diventato iraniano e arrivato con passaporto falso negli Stati Uniti per farsi americano, con Andre e i suoi fratelli. Il piccolo Andre, quarto figlio di un padre dispotico che ha sperimentato sulla sua pelle le torture che conducono al riscatto. Battuta vincente, con ace, della premiata ditta Bucciantini-Ferrero quando associano il rapporto tra Andre e Mike a Padre Padrone, romanzo autobiografico del sassarese Gavino Ledda. Probabile che senza «il tiranno non ci sarebbe stato il campione», di sicuro senza quel bestseller che è l’autobiografico Open (scritto con il premio Pulitzer J. R. Moehringer) anche l’unico tennista capace di vincere tutti gli Slam nel «suo quindicennio» (primi anni ’90 fino al 2006, anno del ritiro) nel tritatutto del tennis spezzatino di oggi sarebbe finito nel ranking dell’oblio. Mentre invece il mito di Agassi resiste ed è diventata letteratura.

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