mercoledì 1 marzo 2017
Ucciso il 2 marzo 2011, aveva portato la sua testimonianza cristiana nella politica. Shahbaz viene raccontato in un libro dal fratello Paul: «A Khuspur aveva cercato l’integrazione fra tutte le fedi»
Una manifestazione per Shahbaz Bhatti  a Islamabad, un mese dopo la sua morte nel 2011 (Reuters)

Una manifestazione per Shahbaz Bhatti a Islamabad, un mese dopo la sua morte nel 2011 (Reuters)

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È impresso nella memoria di tanti il testamento spirituale di Shahbaz Bhatti, ministro delle Minoranze del Pakistan ucciso il 2 marzo 2011: un testo intenso, suggellato da quell’indimenticabile «Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire». Di Bhatti molto è già stato detto, ma ora, grazie a Shabhaz. La voce della giustizia, scritto dal fratello Paul, in libreria per San Paolo, abbiamo un ritratto inedito che completa in modo significativo le biografie già in circolazione. Come osserva nella prefazione il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, «suo fratello Paul ce lo rende familiare, descrivendolo nella sua intimità, nella sua esistenza quotidiana, mostrandone i progressi umani e spirituali». Forse Shahbaz Bhatti non sarebbe diventato qual che conosciamo se non fosse stato nato e cresciuto a Khuspur, all’epoca un villaggio di cinquanta famiglia, quasi tutte cattoliche: una rarità assoluta in un Paese a stragrande maggioranza islamica.

Un villaggio in cui ha lasciato il segno padre Paolo Andreotti, molto amico di papà Bhatti, che si prodigò moltissimo per l’istruzione di base, facendo del villaggio un punto di riferimento per l’intera area. «Nel suo piccolo – annota Paul Bhatti – Khushpur era diventata quasi una comunità internazionale. La maggior parte era formata da bambini musulmani. Oggi lo chiameremmo un esempio di integrazione e armonia ben riuscito». L’elenco degli aneddoti illuminanti contenuti nel libro è lungo: si va dai gesti di carità di Shabhaz ancora ragazzo per i mendicanti del villaggio, alla fondazione, all’età di 11 anni, di un’associazione “La voce della giustizia” (iniziativa che, in un primo tempo, attira il sarcasmo del fratello maggiore), fino a uno dei primi emblematici atti di protesta che costelleranno l’intera esistenza di Shabaz, contro l’ipotesi di introduzione della carta di identità diversa per le minoranze non musulmane.

Una legge che finirà nel nulla grazie proprio all’impegno del futuro ministro delle Minoranze. Frequentando l’università di Faisalabad, poi, Shabhaz tocca con mano la discriminazione, quando vede un docente cristiano molto stimato riporre le sue posate in un armadietto a parte, diverso dagli altri per non contaminare quelle dei musulmani. Lì capisce che per lui la battaglia contro l’ingiustizia non è più un gioco, bensì un destino. Inizia così a viaggiare in ogni angolo del Pakistan e, in breve, la sua fama, sorretta da un’abilità oratoria e una capacità organizzativa non comuni, cresce a vista d’occhio, parallelamente alla sua autorevolezza. Se ne accorge anche, a metà degli anni Novanta, Benazir Bhutto, per due volte Premier, la quale, intuendone doti e carisma, lo vuole accanto a sé. Quando il 27 dicembre 2007, in un attentato di matrice estremista, la Bhutto viene uccisa, Shabaz partecipava al corteo, ma fortunatamente si trovava su un altro veicolo.

Anziché arrendersi alla furia fondamen-talista, Bhatti decide di scendere in campo definitivamente e accetta di diventare ministro per le Minoranze. A nulla valgono i ripetuti inviti del fratello Paul a cercare fortuna all’estero, che si fanno più pressanti dopo che, a motivo del suo impegno, anche Shabhaz finisce nel mirino degli estremisti. Morirà, come scrive il fratello, «per un eccesso di amore». La vita di Paul, di otto anni più grande di Shabaz, è stata profondamente segnata dalla sua morte: al funerale del fratello, davanti a una folla di diecimila persone, Paul – che aveva abbandonato il Paese per trovare istruzione e lavoro in Italia – comprende che non può non tornare in patria per raccogliere il testimone di Shabhaz. «È dunque con lo strappo definitivo che Paul ritrova fino in fondo la grandezza del fratello, la forza del suo impegno – scrive Monica Maggioni, giornalista e presidente della Rai, nell’introduzione al libro –. Ora sa di non poter più fuggire. Adesso la lotta di Shahbaz diventa la sua lotta. Con la stessa convinzione e la stessa consapevolezza». Questo libro ne è una prova.


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