mercoledì 10 novembre 2010
Perché temere di assumere nell’arte religiosa miti e figure della contemporaneità? Il dramma moderno non è dipingere soggetti «scandalosi», ma ritrarre un male senz’uscita. La lectio di monsignor Betori.
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Oro, argento e bronzo, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, olio per l’illuminazione, balsami per l’olio dell’unzione e per l’incenso aromatico, pietre di ònice e pietre da incastonare nell’efod e nel pettorale» (Es 24,3b-7). Non è l’inventario della bottega di un ricco mercante della Firenze del Quattrocento, ma un primo, e ancora parziale, elenco di quanto Dio ordina a Mosé che gli Israeliti reperiscano per la costruzione della sua Dimora nel deserto. È un elenco che, per dovizia, varietà e pregiatezza di materiali, non soffre il paragone con le scene fastose della «Cavalcata dei Magi» affrescate da Benozzo Gozzoli nella cappella del Palazzo Medici Riccardi, ovvero con lo splendore severo della commistione di marmi e pietre dure della Cappella dei Principi a San Lorenzo o lo sfarzo del ciborio di Santo Spirito. (...)La nobiltà del materiale può derivare anche dal fatto che lo si riconosce come testimone della trascendenza, del sacro. Ciò che fa nobile la materia di cui ci si serve per realizzare l’opera sacra è il fatto che l’uomo le riconosce la capacità di dire la grandezza del Dio che ha incontrato: a ciò può piegarsi la preziosità di un materiale illustre, ma anche la nuda fisicità di un materiale comune, elevato però dal rapporto che esso ha avuto con la trascendenza. I cieli dipinti con il blu dei lapislazzuli come pure i fondi oro delle icone o dei mosaici che risplendono nel Battistero di Firenze esprimono certamente una dimensione sacrale, ma altrettanto si potrebbe dire per un sacco di Burri, su cui si può scorgere traccia ancora del sudore della fatica dell’uomo nel lavoro, con il quale egli nobilita il mondo trasformandolo.Maurizio Calvesi, proprio a riguardo di Burri, si esprimeva in termini affini, parlando di «un processo di risalita dalla muta, squallida presenza della materia e degli oggetti al livello dell’arte come rappresentazione drammatica e regno della bellezza». L’oro che risplende sulle mirabili forme plastiche della porta del Paradiso del battistero di Firenze esprime la convinzione che Lorenzo Ghiberti e i suoi committenti avevano della sacralità del luogo racchiuso tra le tre porte bronzee e della natura trascendente delle azioni che vi si compiono per coloro che ne superano la soglia. Ma anche le forme appena sbozzate dei materiali quotidiani dicono un messaggio di rivelazione della sacralità che la condizione umana e il cosmo tutto hanno assunto in forza dell’incarnazione del Verbo, che ha accolto la forma umana in un processo di abbassamento, necessario preludio della successiva rigenerazione.Proprio la centralità che, nella fede cristiana, hanno il mistero dell’incarnazione e quello della redenzione, fa sì che non ci sia materia che non possa accogliere il divino e che non possa essere risanata dalla sua miseria e perfino dalla sua abiezione. Uno dei più noti teologi del Novecento, Karl Rahner, spiega la «capacità del divino» che sta nelle cose materiali affermando che «la profondità naturale della realtà simbolica […] di tutte le cose è stata infinitamente dilatata in senso ontologico-reale, per il fatto che è divenuta determinazione del Logos stesso o del suo ambiente. Ogni realtà scaturita da Dio, quando è autentica e intatta e non è degradata a semplice mezzo utilitaristico umano, non dice solo se stessa, ma riecheggia sempre […] l’insieme della realtà. Ma se questa singola realtà, nel render presente il tutto, parla anche di Dio […], questa trascendenza acquista una radicalità ancor maggiore (anche se comprensibile soltanto per mezzo della fede) per il fatto che ora in Cristo queste realtà non ci indirizzano più a Dio solo come a causa, ma a quel Dio al quale esse appartengono come sua determinazione sostanziale o come suo ambiente».Non è solo il Padre invisibile a essere diventato visibile attraverso il volto di Gesù: anche la nostra immagine rivela e rimanda a una dimensione spirituale, che non può essere ridotta alla semplice consistenza materiale e tuttavia fa parte a pieno titolo della realtà. Con parole diverse ma nella stessa linea si esprime un altro eminente teologo del nostro tempo, Joseph Ratzinger, che così, in un suo saggio del 2000, formula il primo dei criteri di un’arte sacra ordinata alla liturgia: «La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell’incarnazione di Dio. Nel suo agire storico Dio è entrato nel nostro mondo sensibile perché esso divenisse trasparente in ordine a lui. Le immagini della bellezza, nelle quali si rende visibile il mistero del Dio invisibile, appartengono al culto cristiano».Tutto in tal senso può assumere il carattere della nobiltà, purché attraversato da un’esperienza di redenzione. In quest’ultima annotazione ritengo si possa cogliere il dramma di quell’arte contemporanea che si nega al traguardo della bellezza proprio perché fa dell’abiezione umana e cosmica non un terreno della misericordia e del riscatto, ma un destino senza vie di uscita. E, soprattutto, ritiene che l’esaltazione dell’abiezione possa essere una strada breve per stupire; ma non si può stupire a costo della verità. Nell’ottica cristiana non è il mondano che viene rifiutato ma il peccato, e anche questo non viene espulso dall’esperienza bensì accolto come spazio di esercizio del perdono e della salvezza. Come afferma Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti del 1999, «persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima, o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione».Viene istintivamente alla mente l’immagine de Il ritorno del figliol prodigo di Rembrandt, ma lo stesso possiamo dire per i volti dei popolani di Caravaggio assurti a dire la fede e la santità. Il non-sacro, cioè, non spaventa, e per chi sa che gli idoli non esistono, perfino le carni offerte agli idoli possono diventare un pasto comune, come insegna l’apostolo Paolo. È il medesimo principio che ha permesso la ripresa dei miti e delle figure della classicità quali strumenti espressivi della rivelazione cristiana nell’arte rinascimentale: spogliati della loro falsa identità sacra i personaggi del mito assurgono a valori perenni e non temono di diventare strumento di loro espressione. E perché oggi dovremmo temere di assumere miti e figure della contemporaneità per dire la verità dell’uomo? Purché, come ricorda ancora san Paolo, «sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio», cioè per manifestare lui e il suo amore per l’umanità.
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