mercoledì 12 maggio 2010
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Nell’oceano dell’editoria di lingua italiana ogni anno salpano oltre 55 mila vascelli di carta e inchiostro, tra novità e ristampe, di cui soltanto pochi approdano all’agognato porto della top ten delle classifiche. L’esperienza insegna che non esistono ricette preconfezionate di marketing con cui determinare a tavolino un successo: altrimenti i grandi gruppi, potendo investire molto, non sbaglierebbero un colpo. Invece sbagliano, forse più di tutti. Allora che cosa unisce Moccia a Flaubert? E Pippi Calzelunghe a Il nome della rosa? Dal Seicento del Candido di Voltaire, la cui fortuna novecentesca è spesso affidata a edizioni d’arte tipografica, al Nome della rosa di Eco che in un primo tempo aveva pensato per il suo manoscritto a un’edizione di poche copie numerate per i tipi raffinati di Franco Maria Ricci, ogni caso svela un risvolto diverso del mondo librario. Ogni edizione è un prototipo a sé di cui in partenza non si conosce il destino: gli ingredienti e le dosi della ricetta cambiano sempre. Una volta è vincente l’immagine di copertina, come è stato detto per i due occhi che fissano il lettore dalla sovraccopertina del romanzo dell’esordiente Paolo Giordano; altre volte è il titolo azzeccato a incuriosire e La solitudine dei numeri primi è esempio anche di quest’aspetto paratestuale affidato spesso all’editore. E pensare che un titolo può essere modificato dopo il successo del film tratto dall’opera: è quanto avvenuto per Arancia meccanica, così intitolata dopo il film di Kubrick, mentre in precedenza il romanzo di Burgess era Un’arancia a orologeria (traduzione di A Clockwork Orange). Sempre per i titoli si potrebbe ricordare il caso del Giovane Holden di Salinger, così tradotto dall’originale The Catcher in the Rye («Colui che prende nella segale»). Il boom dei giovani scrittori è altro fenomeno importante nel creare casi editoriali: basti citare Brizzi con Jack Frusciante è uscito dal gruppo sebbene non sia una novità degli ultimi anni; dopotutto anche Bonjour Tristesse della Sagan negli anni Cinquanta fu scritto a 18 anni. Non si può certo dimenticare il caso Saviano con il suo realismo di denuncia a metà strada tra narrativa e reportage e, per autori arrivati al successo soltanto nella maturità, Bufalino e Camilleri, quest’ultimo con il genere giallo, altro filone suscitatore di casi. Comunque tutte queste opere – da Il gabbiano Jonathan Livingston (rifiutato negli Stati Uniti da 18 editrici prima della pubblicazione) il cui volo nei cieli italiani, nella collana Bur, è da decenni inarrestabile, come quello più recente degli Aquiloni di Hosseini, a Il Piccolo Principe dalle grandi tirature – sono, come diceva Calvino delle Città invisibili, «come i sogni, costituite di desideri e di paure». Qui sta il segreto delle storie che abbiamo amato in edizione rilegata e non ci stanchiamo di rileggere nelle ristampe in brossura, dove spesso finiscono per vendere anche grazie alle letture a scuola: si pensi a Il Gattopardo oppure a La chimera di Vassalli ambientata in un Seicento vicino e al tempo stesso distante dal capolavoro di Manzoni, anch’egli convinto che «da tante cose dipende la celebrità dei libri», che possono anche essere profetici, com’è avvenuto con il Grande Fratello di 1984 di Orwell. Ogni volume nasconde un mistero. O una magia, come naturalmente Harry Potter: il maghetto di Hogwarts ha battuto ogni record quando nel 2007 i suoi fan hanno fatto balzare al primo posto della classifica italiana, non era mai successo, l’edizione in lingua inglese: 24 mila copie nei primi due giorni di uscita e poco meno la settimana successiva, rubando la scena al Cacciatore di aquiloni con un’impresa neppure riuscita al Codice da Vinci. Sono successi che creano mode e fanno scattare meccanismi curiosi: l’importante è avere quel libro e talvolta è un po’ meno importante leggerlo. La letteratura deve così sottostare alle leggi di un mercato librario che sta cambiando: sempre più concentrato e alla caccia di best seller internazionali alla portata di sempre meno editori, come ha rilevato di recente Giuliano Vigini sulla rivista Vita e Pensiero. La verità è che l’editoria può rafforzarsi e creare più qualità soltanto a patto di avere una solida base di lettori: è ciò che manca all’Italia, dove ancora la metà degli abitanti non legge neppure un libro l’anno e la vendita della maggior parte dei volumi di deve a un ristretto numero di lettori cosiddetti forti. Eppure, soprattutto nell’ambiente accademico, un grande successo popolare spesso non viene perdonato; ne ha fatto le spese anche Susanna Tamaro con Va’ dove ti porta il cuore e chissà perché si usa più benevolenza per ex comici come Faletti, che piace a tutte le età. Come è giusto che sia, perché il libro appartiene alla società di chi lo legge, parola di Vittorini, che come editor ha difeso sempre i diritti dei lettori. Da altra prospettiva la Burbery nella sua Eleganza del riccio cerca di «difendere l’idea che la cultura non è proprietà esclusiva di alcuni, bensì di tutti». Se l’importante è leggere, verbo che non dovrebbe mai essere pronunciato all’imperativo – lo si ripete spesso citando Pennac, anche se da noi l’ha scritto prima Rodari –, la promozione dei libri deve valere, senza pregiudizi, tanto per i best seller quanto per i libri da poche centinaia di copie.
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