venerdì 18 aprile 2014
​La leggenda azzurra del pugilato racconta la sua vicenda di esule istriano: «Ai giovani voglio dire che le guerre generano solo odio e quello è il male peggiore».
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Nino Benvenuti è la seconda stel­la, ma ancora la più luminosa della sua Isola “che non c’è”. La prima, è stata la squadra dei ca­nottieri, medaglia d’oro alle O­limpiadi di Amsterdam del 1928. Erano gli eroici vogatori di Isola d’Istria, il paesino carezzato dall’Adriatico do­ve Nino Benvenuti, la leggenda vivente del no­stro pugilato, è nato nel 1938 e in cui ha vissu­to la sua “meglio gioventù”. «Quelli in Istria sono stati gli anni più dolci del­la mia vita, con la grande fortuna di crescere in una famiglia stupenda, isolana da quattro ge­nerazioni, in cui regnavano l’amore e l’armo­nia che mio padre e mia madre avevano tra­smesso a noi figli». I cinque fratelli di casa Ben­venuti, quattro maschi (Eliano, Nino Alfio e Da­rio) e una femmina (la più piccola, Mariella). Di quel tempo pacifico e spensieratamente lu­dico, gli è rimasto il sapore familiare delle «pa­tate in tecia e dello strucolo de pomi», ma so­prattutto l’odore del mare che partiva dal ban­co della pescheria paterna. «Tutto intorno o­dorava di pesce salato. Anzi senza quell’odore, Isola non sarebbe stata più la stessa. Sì, perché Isola era un paese di pescatori e tutta la sua cul­tura, la sua storia, la sua gente veniva dal ma­re. E viveva grazie al mare», ha scritto Benve­nuti – a quattro mani con Mauro Grimaldi –, nel libro L’Isola che non c’è (finalista al Premio Ban­carella Sport). Titolo romantico che rimanda al celebre brano di Edoardo Bennato, se non fos­se per quel sottotitolo, “Il mio esodo dall’Istria”, che invece, parla di fuga, di dolore e di morte. «I fascisti parlavano di bonifica etnica, gli slavi di normalizzazione. Alla fine si è trattato solo di violenza che ha generato altra violenza», di­ce amaro Nino. Il germe velenoso si insinuò in quella piccola comunità «composta a maggio­ranza da italiani puri» che, dalla nazionalizza­zione di Mussolini e dal controllo delle truppe tedesche, due anni dopo l’8 settembre 1943 si ritrovarono braccati dai partigiani di Tito. «Il Maresciallo ordinò le epurazioni di noi ita­liani d’Istria con processi sommari, espropri, torture. La gente spariva dal mattino alla sera... Tito cominciò da Zara nel ’44 dove fecero 2mi­la morti su una popolazione di 20mila abitan­ti. Poi toccò a Fiume che cambiò nome in Rijeka e infine nel ’46 a Pola con 28mila esuli su 34mi­la abitanti». È il bilancio drammatico dell’uo­mo di oggi che è scampato al peggio e che pri­ma di quei giorni assurdi si preparava al suo destino di campione. Nella cantina di casa il giovane Nino si era costruito il suo sacco da boxeur e due-tre volte alla settimana in sella a una bici copriva i 60 km tra andata e ritorno che separano Isola da Trieste, per andare ad alle­narsi in una vera palestra pugilistica. «Mi ac­compagnava Luciano Zorzenon, il primo a credere che sarei potuto diventare un asso del pu­gilato. Era un personaggio degno di Salgari: la­vorava come palombaro a Isola per recupera­re i resti del transatlantico Rex affondato dagli inglesi nella baia di Capodistria». Quelle tappe estenuanti erano ancora scanzo­nate, fino al giorno in cui la guerra fratricida non entrò in casa Benvenuti. «L’Ozna, la poli­zia politica di Tito, si presentò alla nostra por­ta e arrestò mio fratello Eliano che aveva 16 an­ni. Rivedo ancora le lacrime di mia madre, la sua disperazione. Soffriva di cuore, da quel giorno iniziò a morire, si spense a 46 anni», ricorda con profonda amarezza. Intanto Tito aveva annesso Trieste dove sui mu­ri si leggeva: “Trst je nas”  (Trieste è no­stra). Seguirono quaranta giorni di san­gue (dal 1° maggio al 9 giugno del ’45), prima dell’arrivo degli americani. Un tempo sufficiente per il massacro del­la comunità italiana in Istria da par­te dei titini che se la presero anche con i preti. Benvenuti ricorda don Francesco Bonifacio, ucciso a guerra ormai finita nell’estate del ’46, e mon­signor Antonio Santin, vescovo di Trie­ste e Capodistria che, accusato di essere un nemico del popolo jugoslavo, subì le per­cosse di una banda di balordi. Il parroco di I­sola, don Giuseppe Dagri, scampò alla morte fuggendo. Maestri e professori delle scuole i­taliane lo seguirono, ma alcuni non riuscirono ad arrivare a Trieste (tornata sotto l’Italia nel 1954), dove il loro “calvario” non era ancora ter­minato.«Ricordo il pianto dei miei nonni il giorno che lasciarono Isola, erano consapevoli che non l’avrebbero più rivista. Vennero con noi a Trie­ste dove avevamo già un’attività commerciale e una casa e così non siamo finiti, come la mag­gior parte dei profughi, nei 109 centri di acco­glienza che erano stati allestiti. Baraccopoli do­ve istriani e dalmati venivano trattati da “inde­siderati”, così tanti preferirono emigrare in Au­stralia o in America, insomma il più lontano possibile da quella terra amata e perduta». U­na terra da cui Nino portò via con sé solo «i ri­cordi delle piccole cose» che aveva appena im­parato a conoscere ed amare. «Io e i miei fra­telli andavamo pazzi per i giochi che faceva­mo per la strada o giù al porto, a Castel Ver­de. Pomeriggi d’estate passati a pescare “mussoli” e “peoci” (le cozze) e d’inverno tutti assieme ci riscaldavamo davanti al “fogoler” (focolare). Mi è rimasto dentro quel dialetto di Isola e crescendo nono­stante le gioie e i tanti momenti di gloria che mi ha regalato lo sport e la vita, non sono riuscito a cancellare quel senso di sradicamento. Come a degli alberi, a noi italiani d’Istria hanno strappato le radici, per sempre». Dopo l’oro olimpico di Roma 1960 il record dei 170 incontri vinti prima del­la sconfitta «ingiusta» con il sudcoreano Kim Soo Kim e, mentre si avviava a salire sul trono del re dei superwelter (nel 1965-’66) e poi dei medi (dal 1967 al ’70), Benvenuti tornò nella sua Isola per essere festeggiato. «Un ritorno toc­cante, un’accoglienza calorosa, ma rivedere quel piccolo cimitero, che avevo lasciato di­strutto dai titini, mi ha fatto più male dei pu­gni presi nel match con Carlos Monzon o del­la spugna che il mio allenatore Amaduzzi gettò sul ring di Montecarlo. Ci può essere dignità anche nella sconfitta, ma oggi so che l’unica vera sconfitta subita è stato vedere calpestata la dignità e la memoria di un popolo... Mi con­sola che finalmente tutto ciò sono riuscito a scriverlo, per raccontarlo ai miei figli, ai miei ni­poti e a tutti coloro che non conoscono questa triste pagina della nostra storia. È il mio ricor­do, senza odio, perché ai giovani e alle genera­zioni che verranno ho solo una verità da co­municare: tutte le guerre sono terribili, ma l’o­dio che generano è il male peggiore».Nino Benvenuti-Mauro Grimaldi L’ISOLA CHE NON C’È Il mio esodo dall’Istria Libreria Sportiva Eraclea Pagine 112. Euro 12,00

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