martedì 23 novembre 2010
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Amato e rifiutato, testimone profetico del Concilio, riformatore della vita religiosa nel suo Ordine religioso, i benedettini camaldolesi, ma soprattutto un monaco amante della Parola di Dio. Sono tanti gli aggettivi, definizioni che hanno costellato la vita, il Novecento del monaco Benedetto Calati (1914-2000) che il 21 novembre di dieci anni fa si spegneva a Camaldoli all’età di 86 anni. Una figura, quella di Calati, rimasta nella memoria di molti per il suo dialogo con i non credenti, le altre religioni, il mondo ebraico ma anche ricordato per la sua passione per la lectio divina e per aver traghettato, da priore generale dei camaldolesi per 18 anni (1969-87), i suoi monaci nella difficile temperie del post-Concilio. «Sono passati dieci anni dalla sua morte – rammenta lo storico e presidente della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi – ma sembra sia trascorsa una vita. Da allora il mondo si è tanto scomposto che verrebbe da chiedersi cosa penserebbe oggi don Calati? Io credo che anche oggi richiamerebbe tutti al primato della Parola di Dio come lampada del nostro tempo e dei nostri passi».Don Benedetto Calati (al secolo Luigi) lascerà anche, seppur brevemente, la sua impronta nel mondo accademico come docente di Spiritualità monastica al Pontificio ateneo di Sant’Anselmo e di ermeneutica patristica al Pontificio Istituto Biblico.Stella polare della sua vita sarà san Gregorio Magno e il documento conciliare Dei Verbum. Non farà mancare la sua voce a quanti si rivolsero a lui, in ogni epoca, nel monastero di Camaldoli ad Arezzo come in quello romano di San Gregorio al Celio: dall’allora monsignor sostituto alla Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini, ai dirigenti della Fuci, a Luigi Gedda ma anche ai comunisti cristiani di Felice Balbo; manterrà un colloquio, mai interrotto, con Giuseppe Lazzati, Raniero La Valle, Giuseppe Dossetti e il padre della riforma carceraria in Italia Mario Gozzini; del tutto particolare e di grande affinità spirituale sarà l’amicizia con il poeta servita David Maria Turoldo e lo scolopio Ernesto Balducci.Ma sarà soprattutto il vento del Concilio Vaticano II e il pontificato di Giovanni XXIII a cambiare la vita e la visione del mondo di don Calati. «E’ proprio così – rivela il discepolo, il monaco camaldolese e biblista don Innocenzo Gargano – per lui quell’evento ha rappresentato "una vera e propria Pentecoste". Da quella data ha rinnovato liturgicamente Camaldoli, il modo anche di accogliere i laici nel nostro monastero e di predicazione. I suoi punti di riferimento nella teologia furono due domenicani: il teologo della Casa Pontificia Mariano Cordovani ai tempi di Pio XII e uno dei padri della Nouvelle Théologie, il francese Yves Marie Congar: si è fatto prendere per mano da questi due maestri per comprendere, in due fasi diverse, il mondo e la Chiesa prima e dopo il Concilio Vaticano II».Documenti conciliari come la Lumen Gentium, Nostra Aetate, Gaudium et spes e successivamente l’enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam diventeranno la bussola di riferimento di questo monaco dai tratti eccezionali. «Ricordo come rimase lusingato dalla collaborazione, proprio durante gli anni del Concilio, nel 1964, – rivela don Gargano – per un suo commento settimanale al Vangelo per l’Avvenire d’Italia di Bologna. Rappresentò per lui un’occasione privilegiata per spiegare la chiave profetica ed ermeneutica del Concilio, voluto da papa Roncalli».Torna alla mente di Andrea Riccardi l’amicizia mai interrotta con la Comunità di Sant’Egidio, anche in tempi difficili, la passione per Bibbia e la frase che ricorreva spesso nel vocabolario di questo monaco, di origini pugliesi, ed attribuita a San Gregorio Magno divina eloquia crescunt cum legente («la Parola di Dio cresce con chi la legge»): «Il suo grande lascito è stato quello di amare visceralmente la Bibbia, di contestualizzarla con le problematiche dell’oggi. Non è un caso che abbia letto il documento conciliare Dei Verbum come un ritorno ai suoi amati Padri della Chiesa. Per me è stato un grande uomo di preghiera, ma anche un monaco capace di una profezia radicale, insofferente alle sovrastrutture della Chiesa. Egli detestava tutto ciò che è ridondante, barocco all’interno della struttura ecclesiastica. Certamente anche da anziano non ha smesso, quasi con impeto adolescenziale, di lottare e di sognare nel suo stile di monaco modernissimo ma allo stesso tempo medievale».Un capitolo a sé della vita di don Calati sarà l’incontro all’eremo di Montegiove nelle Marche con esponenti dell’intelligentia comunista in Italia, tra questi la storica firma de Il Manifesto Rossana Rossanda, Mario Tronti, Filippo Gentiloni e l’ex presidente della Camera, Pietro Ingrao (che alla sua morte ebbe a dire: «Mi ha liberato dalle mie sicurezze e aperto al dubbio. Ora mi affido al mistero»).Di quei lunghi dialoghi all’eremo di Montegiove ne conserva ancora oggi un ricordo vivido e riconoscente Rossana Rossanda: «Io stessa sulle colonne del mio giornale descrissi don Calati come un "monaco senza indulgenze, un monaco raro che amavamo e ci amava, noi che non speriamo nell’eternità". Ero felice di andarlo a trovare ogni estate all’eremo e qualche volta a Roma a San Gregorio. Quello che più mi ha colpito di lui è stato il suo parlare appassionato, il senso acuto che aveva dell’ingiustizia sociale e il garbo con cui lasciava aperta la sua cella per chi volesse andarlo ad incontrare…».La Rossanda rievoca dal suo album dei ricordi, le grandi discussioni con padre Calati sull’amato Réne Girard o su André Chouraqui, la passione per la musica sacra ma anche l’ictus che colpì nel 1994 l’anziano religioso. «Rammento che pur essendo stato colpito nel corpo volle tornare a Montegiove – rivela la giornalista – mi confidò di avere paura della morte. Fu l’ultima volta che ci parlammo. In quel frangente non fui capace di dirgli: "Ora benedicimi". Il suo grande lascito è stato quello della sua amicizia, capacità di ascolto e di avermi esortato a leggere la Bibbia "sine glossa", senza commenti. Credo che anche per questo ci siamo voluti bene da subito».Un’eredità, quella di don Calati, ancora viva tra i suoi confratelli camaldolesi e nelle sue ultime parole:«Andiamo in pace».«Quello che ci ha lasciato in eredità – è la riflessione finale di don Innocenzo Gargano – è stata la sua testimonianza ma anche il suo credere fermamente nel primato della Parola di Dio, che per lui era un primato dell’Amore, della persona all’interno di una comunità monastica. La sua più grande virtù? Parlare con il cuore, cercare sempre di sintonizzarsi con il cuore dell’Altro».
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