giovedì 14 settembre 2023
Per lo scrittore americano «l’attenzione poetica è preziosa in un mondo in cui la nostra attenzione è catturata, monetizzata e colonizzata dalla luce blu degli schermi e dagli algoritmi»
Lo scrittore statunitense Ben Lerner

Lo scrittore statunitense Ben Lerner - museumwall

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Uno dei compiti della letteratura è quello di immaginare il futuro e provare a raccontarlo in rapporto a presente e passato. Da un lato c’è la scoperta, i linguaggi nuovi, le rivelazioni e le epifanie, dall’altro lo sguardo sul cammino compiuto, le “cose da salvare” e fotografare nella memoria per farne tesoro e trasformare ciò che è in ciò che sarà. Ben Lerner in questo senso è uno tra i più interessanti scrittori americani contemporanei; ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi, passando da un genere all’altro con la naturalezza di chi custodisce e cura una lingua, prima ancora di una forma. È uno scrittore capace di esplorare lo spazio e fermarsi per posare lo sguardo, alternando moto e stasi con la stessa naturalezza con cui passa dalla prosa alla poesia. L’abbiamo intervistato in occasione del suo incontro a Milano al festival 2084, intitolato “Salvare lo sguardo”.

Il tema del festival 2084 di quest’anno è “Cose da salvare”. Nel libro Nel mondo a venire (Sellerio) lei parla dell’Istituto per l’arte irrecuperabile, che si basa sull’Istituto per l’arte di recupero di Elka Krajewska. La sua è una riflessione sul valore del prodotto artistico e sulla sua contestualizzazione, che definisce ciò che è arte e ciò che non lo è, o cessa di esserlo. Che cos’è l’arte per lei?

«L’arte stessa pone sempre di nuovo la domanda “Che cos’è l’arte”: quando John Cage ci chiede di ascoltare il silenzio come musica, o William Carlos Williams ci chiede di leggere una nota lasciata su un frigorifero come una poesia, o Marcel Duchamp (o un milione di altri artisti) ci chiede di vedere un oggetto utilitario trovato come una potenziale opera d’arte, tutti ci sfidano a pensare a che cosa sia o possa essere questa strana cosa chiamata “arte”, a quale possa essere l’intenzione, l’attenzione e il valore artistico. Forse si potrebbe dire che l’arte rappresenta sempre un esperimento su nuovi tipi di valore, che l’arte ci sfida sempre a immaginare forme di valore che non sono catturate dal mercato, dal prezzo. Quindi, anche se qualsiasi definizione generale sarà sbagliata e se domani darei una risposta diversa da quella di oggi, direi che l’arte è un laboratorio di esperimenti sul valore».

In Le figure di Lichtenberg (Tlon) la sua riflessione verte sulle «dicotomie tra linguaggio e memoria, forma e violenza». Il tema del suo intervento al festival sarà “Salvare lo sguardo”. Lei ha scritto – ironicamente? – che «siamo tutti poeti in virtù del semplice fatto di essere umani». Credo invece si sia poeti quando si impara a salvare lo sguardo sulle piccole cose. Cosa ne pensa?

«Penso che la poesia sia un linguaggio sottoposto alla massima pressione possibile, in modo che ogni particella di linguaggio produca il massimo significato e la massima musica possibile, in modo da farci vedere schemi che altrimenti ci sfuggirebbero. Si tratta quindi di attenzione, e l’attenzione poetica potrebbe essere particolarmente preziosa in un mondo in cui la nostra attenzione è catturata, divisa e monetizzata come mai prima d’ora, in cui la nostra attenzione è sempre più colonizzata dalla luce blu dei nostri schermi e dagli algoritmi dei cosiddetti social media. Prestare attenzione a una poesia significa prestare attenzione alle piccole cose, ad esempio al modo in cui una particolare interruzione di riga libera nuovi significati».

Uno dei grandi temi del nostro presente è quello di “risparmiare” tempo. Pensa sia possibile imparare a prendersi più tempo e vivere come l’Adam Gordon flâneur di Un uomo di passaggio (Neri Pozza)?

«Non sono sicuro che Adam Gordon sia un grande modello, ma penso che la letteratura sia una tecnologia per sospendere il tempo, o per farci vivere la durata come tale, o per farci viaggiare nel tempo: non dovremmo mai perdere la nostra meraviglia di fronte al miracolo fondamentale che la letteratura ci permette di ricevere messaggi dai morti e inviare messaggi al futuro. Penso anche, ancora una volta, che la letteratura possa aiutarci a distogliere lo sguardo dalla temporalità del ciclo di notizie di 24 ore o dalle infinite scariche di dopamina di internet, dal puntare e cliccare, e a sperimentare ritmi di pensiero e sentimento diversi e più umani».

In Topeka School lei ha descritto un presente collassato in molte cose. Cosa si può salvare?

«Penso che la totale bancarotta dei pass per il discorso pubblico mainstream ci costringa a pensare a quali tipi di nuovi linguaggi potrebbero essere possibili. Nel collasso linguistico c’è sempre l’opportunità di un rinnovamento. Topeka School cerca di cogliere sia l’assurdità di certe forme di discorso, sia di rinnovare un senso di meraviglia di fronte al miracolo del linguaggio in quanto tale: che il linguaggio (questi segni su una pagina o colonne parlate di aria vibrante) possa creare un mondo sociale».

Nei suoi libri si parla anche di fallimento. Lei scrive: «La poesia è sempre la testimonianza del fallimento». Come impariamo a salvare qualcosa dal fallimento per vivere una vita meno ossessionata dal successo e dall’apparenza?

«I fallimenti sono spesso meravigliosamente espressivi: si pensi al modo in cui una voce si spezza sotto la pressione emotiva di un enunciato, per esempio, o a come a volte sentire una voce che si incrina per l’emozione e si ammutolisce sia più espressivo di qualsiasi eloquenza. Molte delle poesie che amo usano la frammentazione, l’esitazione o il crollo in scena come un modo per esprimere un’emozione che sarebbe falsata solo da un discorso più curato. Quindi, in un certo senso, il fallimento è una tecnica, non solo una perdita di tecnica. Ma credo che se la cultura generale sapesse piangere, sapesse riconoscere i propri fallimenti, sapesse ritirarsi, “decrescere”, sconfessare i termini capitalistici del “successo”, sarebbe un beneficio per tutti».

Nella descrizione di The Lights (Granta Poetry) si dice che le sue poesie comunicano – nella loro imprevedibilità e intensità – la promessa di misteriose fonti di elevazione e illuminazione. Crede che la poesia abbia questo potere?

«Penso la poesia allunghi il linguaggio, estenda le possibilità del linguaggio, anche se su scala ridotta. E poiché il linguaggio è il materiale del pensiero e il materiale della nostra vita sociale, penso che questi esperimenti contribuiscano a creare nuove possibilità di pensiero e sentimento. Non sto dicendo che un libro di poesie – il mio, meno di tutti! – cambierà il mondo, ma penso che ci siano piccole scintille di possibilità nelle poesie, scintille blu che sorgono nel buio».

Uno dei temi più sotterranei ma sempre presenti nei suoi libri è l’amore, anche in dinamiche familiari talvolta complesse. Sul tema “salvezza”: l’amore può essere salvifico come dicono certe poesie?

«Lo spero».

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