mercoledì 24 maggio 2023
Il regista in concorso a Cannes rievoca la storia del piccolo che nel 1858 fu strappato alla famiglia dai soldati di Pio IX. «Non è un'opera contro la Chiesa. Ho scritto al Papa per vederlo insieme»
Il regista Marco Bellocchio (a destra) con gli interpreti di "Rapito"

Il regista Marco Bellocchio (a destra) con gli interpreti di "Rapito" - Ansa

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«Ho scritto al Papa per invitalo a vedere il film. Non mi ha ancora risposto, ma resto in attesa, mi piacerebbe davvero molto che lo vedesse in una “serata tra amici”. Nel frattempo l’hanno visto alcuni sacerdoti, molto emozionati e pensierosi, e alcuni ebrei di un certo livello, che hanno espresso una commozione molto forte». A Cannes per il quarto anno consecutivo, Marco Bellocchio è arrivato in concorso con Rapito, il film che rievoca il caso di Edgardo Mortara, il bambino di sette anni che nel 1858, nel quartiere ebraico di Bologna, venne strappato alla sua famiglia dai soldati di papa Pio IX.

Secondo le dichiarazioni di una domestica, ritenuto in punto di morte a sei mesi, il bambino era stato segretamente battezzato e la legge papale è inappellabile: deve ricevere un'educazione cattolica. I genitori del piccolo, sconvolti, tentano qualunque strada per riavere il figlio. Sostenuta dall'opinione pubblica e dalla comunità ebraica internazionale, la battaglia dei Mortara assume presto una dimensione politica. Ma il Pontefice non accetta di restituire il bambino. E mentre Edgardo cresce nella fede cattolica, il potere temporale della Chiesa volge al tramonto e le truppe sabaude conquistano Roma.

Interpretato da Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Leonardo Maltese, Filippo Timi, Fabrizio Gifuni, nelle sale con 01 Distribution il 25 maggio, il film è prodotto da Beppe Caschetto e Simone Gattoni con Rai Cinema, che hanno deciso di devolvere gli incassi della prima giornata all’Emilia Romagna. Il 26 arriverà invece il libreria il volume di Paolo Mereghetti Rapito. Un film di Marco Bellocchio, edito dalla Cineteca di Bologna.

«Quando ho letto il libro di Vittorio Messori (che in Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX analizza anche il diario inedito di Mortara, in cui difende Pio IX e denuncia le strumentalizzazioni subite da parte liberale) sono rimasto molto affascinato da questa storia e abbiamo cominciato a pensare a un film», commenta Bellocchio, fresco vincitore di un David di Donatello per la regia di Esterno notte. «Poi quando abbiamo scoperto che Spielberg aveva avuto la stessa idea e stava già cercando luoghi e attori, ci siamo fermati per poi ricominciare a lavorare quando il regista americano ha deciso di abbandonare il progetto. La nostra intenzione non è mai stata quella di fare un film contro la Chiesa, contro il Papa o contro la religione. Non c’è mai stato alcun intento politico e ideologico. Ma è stato un viaggio complicato per la necessità di condensare in un paio d’ore una storia lunghissima scegliendo l’essenziale. L’altra sfida è stata quella di trovare il bambino giusto: in tv se ne vedono tanti che fanno la pubblicità dei biscottini e sono penosi, una vera tragedia per loro. Io dovevo invece trovare un bambino vero ed Enea Sala mi ha colpito per il suo sguardo».

Ma fu vera conversione quella di Mortara? «Per gli ebrei naturalmente no. A sette anni Edgardo cercava solo di sopravvivere e per farlo doveva accettare certe regole. Non era profondamente domato però, c’era qualcosa in rivolta nel profondo del suo animo. Ma non possiamo ignorare il mistero: quando fu libero di fare le proprie scelte, decise di restare fedele al Papa sostenendo che il suo vero padre era Pio IX. Divenne sacerdote e missionario dedicando la propria vita alla conversione degli altri, ma pagò a caro prezzo la sua, con prolungate malattie».

È interessante che il regista torni sul tema del rapimento dopo aver raccontato per ben due volte quello di Aldo Moro. «Entrambi i rapimenti hanno a che fare con una forma di cecità, quella ideologica dei brigatisti, certi che avremmo avuto una società comunista guidata da un partito rivoluzionario della classe operaia, e quella di Pio IX, convinto che non si potesse liberare il bambino perché dopo il battesimo si è cristiani per sempre. Da qui il suo “Non possumus”, che inizialmente avrebbe dovuto essere proprio il titolo del film». «Ai tempi del rapimento Moro – aggiunge Gifuni, che interpreta Pier Gaetano Feletti, inquisitore del Santo Uffizio – l’80% dell’opinione pubblica era daccordo sul fatto che non bisognasse trattare con dei criminali, a costo di condannare a morte un uomo. Anche quella scelta di obbedienza a una regola non scritta fu spietata. Feletti obbedisce al diritto canonico e alla propria fede, anche se questo lo costringe a strappare un bambino alla propria famiglia. Non aveva altra scelta. Ho cercato di restituire il suo stato d’animo attraverso un’assenza di luce nello sguardo. Cosa accade nell’animo di una persona che deve obbedire a certe norme resta un mistero. D’altra parte la grande contemporaneità del cinema di Bellocchio sta proprio nella libertà del gesto creativo, nel suo combattere la semplificazione, nell’affrontare la complessità».

«Nella mia educazione cattolica – dice ancora il regista - nulla era in discussione. C’erano i peccati mortali e quelli veniali, e la scomunica era una condanna terribile. Oggi le cose stanno diversamente, papa Francesco ha aperto molte porte».

E sui premi Bellocchio conclude: «A parte la Palma d’onore non ho mai vinto nulla a Cannes, e se anche quest’anno non ci sarà un premio non cambierà nulla. Spero solo che la gente vada a vedere il film. L’età avanzata, che ha molti svantaggi, mi ha portato a vedere meglio le cose e oggi lavoro solo su progetti che mi coinvolgono profondamente».

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