domenica 24 settembre 2023
Il poeta Valerio Magrelli a Foligno ha presentato in prima nazionale "Belli-Petrassi", un affascinante viaggio musicale che rende la poesia belliana ancora più efficace e straordinariamente attuale
Roma: a Trastevere si trova il monumento che celebra il poeta Gioacchino Belli (1791-1863)

Roma: a Trastevere si trova il monumento che celebra il poeta Gioacchino Belli (1791-1863)

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«Scivola la penna verso l’inguine della pagina, e in silenzio si raccoglie la scrittura». Sono i versi “quotidiani” di Valerio Magrelli, poeta, saggista, traduttore e affabulatore teatrale, insomma uno di quei rari personaggi delle patrie lettere contemporanee per il quale vale il giudizio di Levi-Strauss per Celine e Proust che per il filosofo francese erano «l’inesauribile felicità di lettore». Ieri sera la riprova, a Foligno, per la prima nazionale di “ Belli- Petrassi. Roma e la sua campagna tra musica e poesia.” (una produzione Amici della Musica di Foligno, dedicata alla memoria dell’attore romano Elio Pandolfi) con lo scrittore Magrelli sul palco del mistico Auditorium di San Domenico dove per una notte è lettore, commentatore e fine dicitore di Giuseppe Gioacchino Belli, di cui quest’anno ricorre il 150° dalla morte (1791-1863). Un recital, che rispetto a quello che andò in scena tempo fa al Teatro Argentina affiancando l’attore Massimo Popolizio ( Popolizio legge Belli. Sonetti erotici e filosofici) a Foligno si è avvalso del pianoforte di Marco Scolastra e della voce della soprano Maura Menghini – scuola Santa Cecilia - che hanno eseguito i Canti della campagna romana di Goffredo Petrassi.

La forza dei Canti popolari di Petrassi

«Magnifici Canti popolari che Petrassi compose appena ventenne e che restituiscono in musica quell’atmosfera che distingueva l’Urbe del Belli dalla vita della campagna fuori dalle porte di Roma», sottolinea il maestro Scolastra. Magrelli, in questo viaggio letterario- musicale, da riproporre assolutamente ovunque e al più presto, porta lo spettatore alla scoperta del Belli con la selezione di alcuni dei 2.279 Sonetti. «Sono la bellezza di 32mila versi. Più del doppio rispetto alla Divina commedia ». E il rimando dantesco non è casuale, «lo stesso Alighieri (la prima copia della Divina Commedia venne stampata proprio a Foligno, nel 1472) malediva quella coincidenza secolare tra il potere spirituale e temporale, la “teocrazia misogina” che di fatto ha segnato in maniera indelebile il destino di Roma». La dicotomia tra il romano dell’Urbe e quello della campagna, è descritto e narrato in maniera unica e originale nei Sonetti. E la Roma belliana per Magrelli non è poi così distante da quella odierna. « Roma purtroppo è ancora quella della “cleptocrazia”, ha mantenuto il lato infingardo e predatorio di chi la governa. Non ha conosciuto lo Stato efficiente e burocratico di Milano e del nord d’Italia, ed è quindi quella che con affetto e la giusta dose di cinismo il Belli marchiò come “cloaca”.

Gioacchino Belli, storia di un preveggente

Belli è stato un preveggente, mentre lui scriveva guardando avanti, Roma andava e va ancora a ritroso, vittima dei “bagnini” che bloccano la trasparenza e la verità». “ La verità è ccom’è la cacarella…”, al pari della diarrea, finisce per uscire, ci spiega il Belli. «Caustico, irriverente, ma anche generoso e tenero verso gli umili, gli ultimi, e questo è il lascito vivissimo e più prezioso di tutta la poesia del Belli. La Roma sfasciona dei giorni nostri, sempre più ostaggio della politica, sicuramente gli avrebbe ispirato altri tremila sonetti ex novo, e chissà che cosa avrebbe potuto fare con le rime…», sorride diverito Magrelli appena sceso dal palco mentre per noi rimette i panni del fine francesista e dello studioso di tedesco con trascorsi in Germania da giovane borsista a Brema. « Belli è un giocoliere linguistico, lui nei Sonetti si diverte con il francese, con il tedesco e in Villa Wolkonsky sbertuccia da par suo anche il russo. Alla fine però antepone sempre la lingua de Er tartajjone arrabbiato e conviene che «nnun c’è lingua come la romana, pe ddi una cosa co ttanto divario che ppare un magazzino de dogana » . Il patrimonio inesauribile della sua poesia è il seme originario del dialetto. «Una lingua, il dialetto romano, che cessa di esistere, arsa come in un rogo sacrificale, proprio con i suoi Sonetti. Poi ci sono state opere gradevoli anche in Cesare Pascarella, Mario dell’Arco e Trilussa, il quale non si può confondere, come spesso accade, con il Belli, perché Trilussa è un poeta di intrattenimento, mentre il Belli è un metafisico di una grandezza tale che personalmente colloco con il Porta, Foscolo e Leopardi tra i quattro più grandi esponenti della nostra poesia. La maledizione di essere capitale d’Italia ha condannato Roma a rinunciare al suo dialetto - continua Magrelli - . Quella lingua madre che nobilita la poesia di Pasolini che nei suoi versi friulani è superiore alle prove della prosa romana. Anche se va detto che nel romanzo del ‘900 il dialetto romano migliore si ritrova nelle opere di non romani, come il Gadda de Er pasticciaccio o in Fenoglio che scrive in “romanesco”. E trovo divertente osservare questa capacità mimetica che viene fatta fiorire negli ambienti più diversi della nostra letteratura». Tornando al Belli, in questo affascinante viaggio teatrale di musica e parola si sconfina nella campagna “odiata” e nei Sonetti ritorna costanscrive temente l’agiografica Frascati. « È il borgo rurale per antonomasia – sorride Magrelli - . Frascati per il romano verace è il paradigma del termine un po’ desueto e dispregiativo del “burino”, ovvero colui che viene da fuori porta, quello che per Totò diventa il “villico”. Chi abitava a Roma viveva nel centro della cristianità, fuori dall’Urbe cominciavano i gironi infernali, Er deserto. Nel libro Nelle terre degli antropofagi di Marcello Teodonio si racconta di quando il Belli viaggiando nel Lazio meridionale descrive il suo orrore dinanzi al morto ammazzato dal cocchiere con la sua carrozza. Quelle campagne secondo lui sono popolate di cannibali che vivono in un deserto malarico. È Dante che scende all’inferno».

La folgorazione belliana per Milano e la via tracciata da Carlo Porta

ùBelli non fu un grande viaggiatore e forse il suo approdo più esotico sarà quella Milano, elegante, disinvolta, ricca e parsimoniosa, di cui in una lettera, del 1828, all’amico Neroni Cancelli: «Quella città benedetta pare sia stata fondata per lusingare tutti i miei gusti». Milano è la città di Carlo Porta, un faro che ha orientato tutta la sua poetica, un fratello maggiore per il Belli. « Belli fu anticlericale ma al tempo stesso animato da una sua spiritualità forte che Magrelli rilegge sotto i riflettori. « La mia teoria, è che da Lutero in poi c’è sempre la stessa richiesta, quella di una credenza evangelica al di fuori dalla corruzione della Chiesa. Che poi è un po’ quello che fa papa Francesco, il quale a me pare che proprio per questo venga osteggiato in mille modi. Belli si scaglia contro chi abusa della parola di Cristo per farne strumento di potere, l’apparato ecclesiastico che attraverso il verbo cristiano specula senza dignità. Su questo punto la mia affinità con il Belli è totale. Anche se ho frequentato scuole pubbliche provengo da una formazione strettissimamente cattolica, fondata sull’interpretazione dei Vangeli. Poi mi sono staccato, ma la mia convinzione è che l’imprinting non si cancelli mai e lo stesso accadde anche al Belli: critico ostinato e ad oltranza verso quella visione desolata del destino umano, espressa con una cupezza assoluta, ma al contempo creatore di allegorie come gli angioloni con le trombe o il macinino della morte che « sfragne ». Immagini e parole potenti che si infrangono come flutti sulle scogliere della coscienza, ieri come oggi. Ma qualcosa rimane tra le pagine scure di questo poeta immenso?

L'eredità di un sommo Poeta

«È un’eredità che pesa. Il dialetto romano non lo parla più nessuno e a scuola probabilmente trovano imbarazzante tirare fuori i Sonetti. Ed è un peccato, perché raramente l’espressività linguistica arriva a quei livelli. La ricchezza e la potenza della lingua del Belli è pari solo a quella che si può riscontrare in Rabelais e in Celine: anche lui stramalediva la campagna, perché nella Grande Guerra aveva condannato gli uomini a morire sui campi, di battaglia». © RIPRODUZIONE RISERVATA «La sua Roma è come quella odierna: vittima della cleptocrazia Il dialetto romano termina con i suoi 2.279 sonetti. Con Porta, Foscolo e Leopardi è tra i quattro grandi della nostra poesia» Il poeta e scrittore Valerio Magrelli Roma: si trova a Trastevere il monumento celebrativo del poeta Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863)

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