mercoledì 7 settembre 2016
Beevor, la storia in guerra
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Anche la guerra non è più quella di una volta, eppure c’è qualcosa che non cambia. «È la tendenza a disumanizzare il nemico », spiega lo storico inglese Antony Beevor, che al Festivaletteratura di Mantova su questo tema (“Com’è cambiata la guerra: dalla Seconda guerra mondiale al-l’Isis”, Teatro Ariston, ore 18.15) e domani parlerà di uno dei suoi modelli, lo scrittore russo Vasilij Grossman, al quale si deve il capolavoro Vita e destino (“A Writer at War”, Tenda Sordello, ore 18). Premiato in tutto il mondo e membro di accademie prestigiose, Beevor non è uno studioso pienamente convenzionale. I suoi libri, molti dei quali incentrati sulle battaglie decisive del secondo conflitto mondiale (dal best seller Stalingrado al recente Ardenne, l’ultima sfida di Hitler : in Italia sono pubblicati Rizzoli), si basano su una documentazione ineccepibile e di primissima mano, ma conservano tracce ben riconoscibili del passato militare dell’autore. Prima di dedicarsi alla storia, Beevor è stato ufficiale nell’XI Ussari e un certo piglio marziale rimane anche nel tono della voce, nella precisione delle risposte.

Da sempre la guerra produce lutti e sofferenze, però non riusciamo a liberarcene. Perché? «L’elemento razionale non ha mai giocato un ruolo rilevante in ambito bellico. All’origine delle guerre ci sono spesso rivendicazioni nazionaliste, atteggiamenti di risentimento e rivalsa, paure alimentate ad arte in modo da presentare il conflitto armato come unica soluzione possibile».

Ed è per questo che il nemico viene disumanizzato? «Esattamente. Basti pensare al genio diabolico di Goebbels, all’ondata d’odio sollevata contro gli ebrei e, in genere, contro gli avversari del Terzo Reich, presentati come creature subumane, da eliminare con ogni mezzo. La Germania, in quegli anni, è stata sottoposta a un gigantesco lavaggio del cervello, i cui risultati sono tristemente noti».

Non è la stessa strategia messa in atto oggi da Daesh? «Propaganda a parte, non credo che la situazione attuale sia paragonabile con quella del passato. La differenza principale sta nell’assenza di ideologie che caratterizza la nostra epoca. La Seconda guerra mondiale nasceva dalle mire espansionistiche dei fascismi europei, ai quali si contrapponeva, sul fronte opposto, un’altra forma di totalitarismo, di cui era espressione l’Unione sovietica. Il jihadismo si colloca in un contesto completamente diverso, la sua minaccia cade in un vuoto ideologico che modifica radicalmente gli assetti dello scontro».

L’ideologia sarà anche debole, ma le ragioni economiche sono molto forti. «Lo sono sempre state, se è per questo. Molti conflitti, anche in passato, hanno avuto origine da qui. La stessa Seconda guerra mondiale è stata, in gran parte, causata da motivi economici, particolarmente evidenti nel caso dell’attacco sferrato dal Giappone contro gli Stati Uniti nel 1941. Nonostante questo, l’economia da sola non è mai sufficiente a spiegare lo scoppio di una guerra».

Neanche della nuova forma di guerra che si sta imponendo in questo momento? «In primo luogo occorre precisare che quella attuale non è la prosecuzione o la replica delle guerre mondiali così come le abbiamo conosciute. Negli ultimi settant’anni l’Europa ha sostituito il totalitarismo con la democrazia, nell’illusione che questa forma di governo possa mettere al riparo dallo scontro armato. Questo è stato, per esempio, uno degli argomenti addotti dai sostenitori del Remain in occasione del referendum sulla Brexit nel Regno Unito. In realtà si tratta di una visione straordinariamente ingenua».

Perché? «Gli Stati Uniti sono una democrazia, tanto per cominciare, ma non hanno mai esitato a intervenire militarmente, anche a costo di provocare reazioni violente, come accade in Medio Oriente. La catena di errori di cui siamo stati spettatori a partire dagli anni Novanta deriva da un’unica premessa fallace: quella che ci sia un nuovo Hitler da combattere e che, per farlo, ci si debba alleare con un nuovo Stalin. George Bush agli inizi degli anni Novanta e Tony Blair nei Duemila sono caduti nello stesso errore, da cui derivano le guerre e gli attacchi terroristici di oggi».

Ed è qui che entra in gioco Daesh? «Il jihadismo non può essere ridotto al terrorismo. Il panorama al quale dobbiamo adattarci è molto più complesso, prevede l’articolazione del conflitto su fronti e con modalità differenti. Una di queste continua ad essere la battaglia in senso tradizionale, come quella che si è combattuta a Mosul».

Oltre che alla storia militare, lei ha dedicato molta attenzione all’opera di Vasilij Grossman. Per quali motivi? «Grossman è stato il grande cronista della battaglia di Stalingrado e, insieme, il più temibile avversario della propaganda nazista. Davanti alla campagna di disumanizzazione del nemico condotta dal Terzo Reich, Grossman ha intuito che il dovere dello scrittore consiste, al contrario, nel restituire umanità a ciascun combattente, a ciascuna vittima. La sua è una concezione profondamente morale, che si sottrae a qualsiasi processo di massificazione e mira a riconoscere la dignità specifica di ogni individuo. Possiamo considerarla, a buon diritto, una profezia che ancora ci riguarda».

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