martedì 15 dicembre 2020
Tra la morte shakespeariana e i funerali di massa, il compositore assunse l'immagine del genio incompreso, capace di superare con la propria arte ogni avversità e divenire così immortale
Ludwig van Beethoven

Ludwig van Beethoven - WikiCommons

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Può apparire paradossale nei giorni in cui se ne celebrano i 250 anni della nascita, avvenuta a Bonn il 16 dicembre 1770, ma per capire meglio il fenomeno Beethoven è necessario partire dalla fine, da quei tre formidabili giorni che decretarono un'altra nascita: quello del mito. È perciò lettura consigliatissima il volume di Artemio Focher Ludwig van Beethoven. 26-29 marzo 1827, pubblicato da Libreria Musicale Italiana (pagine 208, euro 30,00).

Il 26 marzo 1827 è la data della morte di Beethoven, avvenuta a Vienna nella Schwarzspanierhaus, la Casa degli Spagnoli neri (oggi scomparsa), dopo una malattia durata mesi e una agonia particolarmente difficile. Il 29 si celebrano invece le esequie. La sequenza degli eventi di quei tre giorni, i diari, i resoconti sui giornali, le poesie, le testimonianze raccolte a distanza più o meno grande, compongono l’affresco di una vera e propria mitopoiesi, portando a maturazione improvvisa un processo iniziato nei mesi precedenti. “La figura di Beethoven – scrive Focher – compositore e uomo, già aveva assunto, pur tra le riserve di taluni ambienti musicali del tempo, tratti eroico-mitici, quali mai erano stati attribuiti ad alcun altro precedente musicista. Il cosiddetto Beethoven-Mythos, infatti, avviatosi in modo discreto, ma con forte progressione, già negli ultimi anni di vita del Maestro, ebbe lo scatto decisivo e conseguì la sua prima, potente configurazione proprio con la morte e i funerali”.

È la prima volta che questi momenti vengono descritti quasi minuto per minuto. Focher mette in sequenza una notevole mole di materiale, molta del quale è disponibile per la prima volta in Italia, sempre consultato in originale, discusso e confrontato per verificarne il più possibile l’attendibilità.

L’abitazione del compositore, tanto nelle ore dell’agonia quanto soprattutto in quelle successive, diviene meta di un vero e proprio pellegrinaggio. Le parole, i gesti, gli aggettivi usati costruiscono attorno a Beethoven un’aura di santità: la sua arte sembra arrivare direttamente da Dio, la sua assoluta dedizione alla musica assume i tratti di una missione ultraterrena. E come per i santi, è necessario accaparrarsi reliquie. È un vero e proprio saccheggio: è tale la quantità di ciocche di capelli che vengono tagliate dalla sua testa (autorizzate o di contrabbando) che al momento della chiusura della bara il compositore si troverà con il cranio quasi rasato.

A caratterizzare ulteriormente la soprannaturalità dell’uomo e del suo trapasso ci pensa anche una atmosfera degna di Shakespeare. Nel pomeriggio del 26 marzo si addensa improvvisa nei cieli di Vienna una tempesta: nubi nere oscurano il sole, sulla strade si abbattono grandine e nevischio. Un lampo e un tuono violentissimo squassano la camera: Beethoven apre gli occhi, alza la mano destra, la stringe in un pugno per alcuni secondi e muore. L’immagine è celebre ed è stata spesso respinta come finzione romantica (i testimoni beethoveniani, quasi in gara tra loro, non di rado ingigantiscono o camuffano il loro ricordo) e lo scadimento nell’aneddotica tra folklore e iperbole è un vizio duro a morire dei resoconti e delle biografie a tema musicale, tanto classiche quanto del pop. Ma in questo caso è stato proposta una possibile spiegazione clinica, legata alla malattia epatica di Beethoven, che consentirebbe di dare credibilità all’aneddoto. In ogni caso, sulla tempesta non si nutrono dubbi, ma ciò che importa è l’interpretazione che ne fu data. Lo scatenarsi degli elementi della natura (e in diversi sottolinearono come fossero gli stessi a cui Beethoven si era ispirato nella Sesta sinfonia) diventa il battesimo dell’apoteosi, il segno che Beethoven, come Orfeo, era entrato nell’immortalità.

Il giorno dei funerali è degno di un kolossal. Già dalle prime ore del mattino sul Glacis si assiepa una folla crescente che diverrà presto una distesa nera e sterminata. Vengono chiuse persino le scuole per consentire agli studenti di partecipare e si rende necessario l’intervento dell’esercito per gestire la calca. Amicizia, stima, fama, curiosità: l’imperativo è esserci. Le stime dell’epoca più attendibili parlano di 20mila persone. Il feretro viene portato fuori di casa alle 15, il corteo si avvia alle 16 ma per arrivare alla chiesa dei minoriti, distante poche centinaia di metri, ci mette almeno un’ora. A chiuderlo ci sono, a seconda delle testimonianze, tra le cento e le duecento carrozze, tra le quali molte imperiali. Al renano Beethoven viene tributato un schoene Leich, un “bel funerale”, da autentico viennese, privilegio che fu negato a Mozart, finito malamente in una fossa comune, e a Haydn.

La celebre orazione funebre di Grillparzer è il culmine di quella giornata. Ma Focher ha il merito di circondarla di una corposa antologia di poesie, oltre che di cronache, pubblicate in tempo reale e nei giorni immediatamente successivi. Tra le espressioni si registrano “possente titano” (un’espressione divenuta proverbiale), “Prometeo”, “Sovrano del regno dei suoni”, “divino Beethoven”, “il Michelangelo dell’arte musicale tedesca" (mentre, vasarianamente, Mozart è Raffaello), "l’ultimo dei suoi eroi”. Questi testi accreditano l’immagine – che si incrosterà presto in luoghi comuni storiografici e della vulgata musicofila – “dell’artista di genio misconosciuto in vita – scrive Focher - e solo riscattato dalla morte; la sua vita appare inoltre solo come un serrato susseguirsi di difficoltà, se non addirittura di tormenti”. Un mito ancora vivo e che rischia di anchilosare l’ascolto di una musica per la quale, al di là di ogni retorica, pare difficile trovare aggettivi adeguati.

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