giovedì 19 ottobre 2017
Sopravvissuto a quattordici anni di carcere per l'opposizione al governo di Damasco grazie alla forza del suo animo e della poesia: “La bellezza è l'antidoto all'orrore”
Il poeta siriano Faraj Bayrakdar vive in Svezia

Il poeta siriano Faraj Bayrakdar vive in Svezia

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Non è facile trovare un poeta che non voglia pubblicare i suoi versi, eppure al siriano Faraj Bayrakdar è successo proprio così. Nato nel 1951 e imprigionato per due volte consecutive nel 1978, ha poi scontato la sua opposizione al governo di Damasco con una carcerazione durata quattordici anni, dal 1987 al 2000. Le poesie composte in quello che Bayrakdar chiama «il luogo stretto» (e Il luogo stretto è il titolo della sua prima raccolta apparsa in Italia, edita nel 2016 da nottetempo nella versione di Elena Chiti) erano inizialmente destinate ai familiari, che avevano l’ordine di non divulgarle. «Il mio timore – spiega l’autore – era che la diffusione di quei versi potesse tradursi in qualche pena corporale o comunque in un inasprimento della mia detenzione. Ma in un modo o nell’altro furono pubblicati e addirittura tradotti in francese. A distanza di tempo devo ammettere che fu un bene, perché quelle poesie diedero il via alla campagna di solidarietà nei miei confronti. Se oggi sono un uomo libero, lo devo a un libro pubblicato contro la mia volontà». Bayrakdar, che vive a Stoccolma dal 2005, si trova in Italia per ricevere il premio Città di Vercelli, che gli verrà consegnato questa sera alle 21 nel Salone del Seminario arcivescovile della città piemontese nell’ambito del XIII festival internazionale di Poesia civile (per informazioni www.poesiacivile.com). Per l’occasione Interlinea pubblica un’altra sua raccolta, Specchi dell’assenza (a cura di Elena Chiti, pagine 120, euro 12, testo arabo a fronte). «È il mio libro più conosciuto e tradotto nel mondo – spiega Bayrakdar –. In Siria è stato pubblicato dopo la mia scarcerazione, ma di fatto non è mai stato distribuito. Solo ora, acquistandolo on line, i miei connazionali possono finalmente leggerlo».

La poesia è stata la sua forma di resistenza alla prigione?

«Sì, è stato il fattore che più di ogni altro mi ha permesso di sopravvivere alla durezza del carcere mi-litare, ma non si tratta soltanto di questo. La parola, che per me si esprime compiutamente nella poesia, ha liberato una parte di me, dando voce alla mia immaginazione. Fin da giovane ho avuto la certezza che la parola, al contrario di quanto accade agli esseri umani, non può mai essere messa in catene. E non sto parlando in senso figurato. Lo ripeto: sono stati i miei versi ad attirare su di me l’attenzione del mondo, dando vita a un movimento culminato nella mia liberazione».

La donna è uno dei suoi temi ricorrenti: perché?

«Vede, il carcere è come un’isola, un mondo a sé, privo di contatti con l’esterno. Un’isola di soli uomini, nel mio caso, ed è proprio l’assenza di donne che porta a riconsiderare l’elemento femminile in tutta la sua ricchezza sentimentale, emotiva e, in definitiva, simbolica. La donna diventa l’immagine di pietà per eccellenza, la manifestazione più pura della misericordia. Perfino al termine dell’interrogatorio più brutale, c’è sempre un’infermiera che ti viene in soccorso come una madre, come una sorella, forse come un angelo. Basta un suo sguardo per far evadere il detenuto, fosse anche per un unico istante. È una sensazione che ho provato a sintetizzare in un verso: “C’è solo lei in questa assenza”. In carcere la donna appare come voce oppure come ombra, in una dimensione solenne, di santità».

Anche quella di Dio è una presenza-assenza molto invocata.

«In alcune poesie ho dato voce alla mia interiorità di uomo non religioso, in altre ho riportato i sentimenti e le espressioni dei miei compagni di prigionia. Molti di loro invocavano Dio sotto tortura e non era raro che perfino i non credenti, nei momenti in cui il dolore si faceva intollerabile, avvertissero la necessità di questa invocazione. E sì, c’era anche chi malediceva. Che pregassero o inveissero, tutti cercavano qualcosa di più grande, capace di metterli al riparo dall’obbrobrio. Questa ricerca trova eco nei miei versi attraverso espressioni che provengono dalle diverse tradizione religiose del Medio Oriente: l’islam, l’ebraismo, il cristianesimo. Un verso come “Dio ha chiuso gli occhi” è inconcepibile per un musulmano, ma mi pare che rappresenti in modo molto efficace lo sgomento di chi si ritrova senza difese».

È di queste ore la notizia della riconquista di Raqqa: la guerra in Siria è a una svolta?

«No, questa non è una svolta, ma una morte annunciata, per parafrasare un celebre titolo di Gabriel García Márquez. Sapevamo fin dall’inizio che la città sarebbe stata distrutta e che dal resto del mondo non sarebbero venute se non rimostranze molto deboli e del tutto ininfluenti. Raqqa è una metafora della Siria o, meglio ancora, della guerra mondiale in miniatura che da anni ormai si combatte in Siria e che l’opinione pubblica internazionale si ostina a rappresentare nei termini di un conflitto civile. A distruggere Raqqa non è stato solo il Daesh, ma anche le truppe russe e gli stessi volontari dell’opposizione curdo-siriana. Tutto è avvenuto nel silenzio complice dei media, che evitano accuratamente di porre le domande fondamentali».

Per esempio?

«Spesso vengono diffuse notizie relative alla cattura di miliziani del Daesh. Bene, ma che fine fanno questi prigionieri? La convinzione di molti è che vengano lasciati liberi di raggiungere zone non ancora toccate dai combattimenti, in modo da rendere permanente il conflitto. Le violenze del Daesh, purtroppo, fanno comodo a tutti e quello che nei mesi scorsi è accaduto a Raqqa potrebbe ripetersi presto a Idlib, una città di mezzo milione di abitanti nella cui provincia si sono ammassati milioni di profughi. In Siria, ormai, la maggioranza della popolazione non ha più fiducia nei confronti delle istituzioni internazionali. La sola speranza possibile sta nel risveglio dell’opinione pubblica».

Anche la poesia può fare qualcosa?

«Può creare una distanza rispetto agli orrori della cronaca, evocando una bellezza che altrimenti andrebbe perduta. Questo è il suo compito essenziale. Il resto, compresa la rivendicazione dei diritti, viene di conseguenza».

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